Frammenti di una donna “ferita”
Chi da Jackie di Pablo Larraín si immagina un ritratto a 360° di Jacqueline Kennedy deve cambiare prospettiva. Lo script – realizzato da Noah Oppenheim premiato con l’Osella per la Migliore Sceneggiatura alla 73esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – non vuole tratteggiare, come spesso accade nei biopic, la vita di questa donna «diventata celebre perché entrata a far parte dei Kennedy», ma si focalizza su un momento particolare della sua esistenza.
Siamo in autunno, il volto di Natalie Portman, che la incarna, già parla sin dai primissimi fotogrammi, c’è una malinconia mista a qualcosa di misterioso nelle pupille dei suoi occhi. Dopo alcuni istanti, ci ritroviamo nella casa di Hyannis Port (a Cape Cod, la striscia del New England che si protende verso l’Oceano Atlantico), la macchina da presa si avvicina quasi in punta di piedi, mossa dalla consapevolezza che sta per varcare la soglia di una casa “privata”. Jacqueline molto probabilmente non ha ancora elaborato il lutto, ma deve indossare i panni di Jackie e dire la sua verità sulla morte del marito assassinato. A raccoglierla è un giornalista (Billy Crudup) – probabilmente Theodore H. White di “Left” – che vorrebbe andare oltre la maschera e riuscire a svelare le reazioni più private, come «il suono del proiettile mentre colpiva il cranio di mio marito». Il punto è che quei momenti in cui la donna si lascia più andare saranno auto-censurati perché il suo obiettivo è restituire la personale versione in quanto «l’atto di scrivere qualcosa la rende vera».
Il regista cileno, dopo il biopic Neruda presentato all’ultimo Festival di Cannes, impasta le mani nella vita di una donna sfuggente, ritenuta da alcuni «stupida», ma che è riuscita a star accanto a un uomo, divenuto Presidente degli Stati Uniti d’America in un periodo profondamente difficile e instabile. Lei che aveva aperto la White House a tutti, facendo un tour ripreso dalla CBS news, perché i cittadini dovevano conoscere «la casa del popolo», si ritrovava a non avere più un tetto dopo quel tragico evento. Larraín sceglie di mixare realtà e finzione proprio come, probabilmente, avviene per queste donne (vedi anche Lady D) che devono fare i conti con la sfera pubblica e privata, laddove la prima è pronta a prevalere e forse risucchiare la seconda.
Nel 2013 alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si era dato nuovamente spazio a questo evento epocale con Parkland di Peter Landesman, in cui ci si concentrava su ciò che era accaduto immediatamente dopo l’attentato a Dallas (22 novembre 1963) e, in particolare, sul transito dei corpi di John Fitzgerald Kennedy e di colui che era stato accusato dell’attentato, Lee Harvey Oswald. In Jackie il regista di Post Mortem mostra volutamente quell’atto così crudele (ma solo verso la fine in modo molto esplicito), ma ci risparmia dal far vedere l’autopsia, che immaginiamo dalla reazione di sua moglie. Un pregio di quest’opera risiede nei corto circuiti narrativi che il cineasta riesce a creare. Ci sono scene in cui si rivà a quel 1963 coi filmati originari e istanti in cui ci si sente sospesi, come in una fiaba. Resta impressa la scena in cui la donna ferita (dentro) e smarrita indossa i tanti memorabili vestiti attraversando stanze e corridoi di una casa che aveva rinnovato col suo uomo e che di lì a poco perderà, proprio come lui. Non si può dimenticare il tailleur Chanel sporco del sangue o lei che cerca istintivamente di bloccare un’emorragia irrimediabile. In questa costruzione di piani temporali e tra pubblico e privato, non è un caso che venga inserito il riferimento a “Camelot”, il musical che JFK ascoltava prima di andare a letto. Sono note allegre che potrebbero stonare nella rievocazione di una tragedia, invece, fanno “solo” da contraltare e tutto sembra essere al proprio posto. Per questi uomini e donne il confine col mito è sempre labile, lei che aveva già subito la perdita di due bambini, doveva accettare questo avvenimento crudele e farsene carico, quasi come in una tragedia greca (e qui si spiega anche la decisione dei funerali in una determinata maniera).
Assodato che si sente la mano di Larraín, c’è qualcosa in Jackie che non ci fa urlare al capolavoro puro perché, seppur magari impercettibilmente, si avverte l’influenza americana e meno la morsa e i pugni allo stomaco a cui ci aveva abituati con le precedenti opere, basti pensare a Il club, dove ovviamente trattava temi diversi.
«Gli oggetti e le opere d’arte durano molto più delle persone e rappresentano gli ideali e la Storia», ecco in quest’ottica rientra anche la Settima Arte e siamo sicuri che Jackie contribuirà a questa missione.
Maria Lucia Tangorra