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Les héros ne meurent jamais

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VOTO: 7

L’uomo con la macchina da presa a Sarajevo

Presentato alla Semaine de la Critique di Cannes 2019, Les héros ne meurent jamais è un ritorno alla Bosnia, un tentativo, l’ennesimo si dirà, di riflessione su un conflitto sanguinario e fratricida durato un decennio, un qualcosa la cui comprensione è sempre risultata difficile. E nonostante la gran mole di scritti, documentari, opere di finzione, ancora sfuggono le motivazioni ultime che hanno generato spinte nazionaliste e secessioniste, odi razziali, tra etnie che fino al giorno prima apparivano come perfettamente integrate. La regista di Les héros ne meurent jamais, Aude Léa Rapin, ha vissuto dieci anni in Bosnia, giunta a diciotto anni a guerra terminata, proprio alla ricerca di risposte a simili interrogativi. Il film segue una troupe cinematografica ristretta che arriva in Bosnia per un documentario incentrato su Joachim, un ragazzo convinto, da sogni ricorrenti, di essere la reincarnazione di un soldato bosniaco, di nome Zoran, morto in guerra. Il loro compito è di individuare la tomba di Zoran e di fare ricerche su di lui, cercando tra coloro che sono morti il giorno della nascita di Joachim. E la loro ricerca darà qualche risultato.

La reincarnazione è una credenza diffusa al giorno d’oggi soprattutto nelle culture asiatiche, sicuramente nessuna delle religioni della ex-Jugoslavia la contempla. Tuttavia il film riesce a mantenerne la suggestione, nella classica forma della sospensione dell’incredulità. La parte finale, l’incontro con la madre che ha riconosciuto il figlio pur in un altro corpo, sembra davvero genuino, anche se vediamo che la regista suggerisce di abbracciarla. Ragionandoci si può delineare la forma originale che la regista ha voluto dare, cioè quella del mockumentary ibridato con il making of. La presenza come protagonista, la regista interna, dell’attrice Adèle Haenel, ormai affermata a livello internazionale (conosciuta per i film The Fighters – Addestramento di vita, La ragazza senza nome, 120 battiti al minuto), dovrebbe rappresentare un segnale di finzione. E questa forma finzionale è comunque solo una macrostruttura che contiene reali esplorazioni, momenti di autentico documentario nei quali la troupe, quella vera e quella ‘finta’, cercano di conoscere e mostrare tutti i punti di vista del conflitto. Così entrano in un negozio, dove campeggia la foto Mladić, i cui gestori reclamano la propria difficile situazione di serbi in Bosnia, mentre più tardi viene filmata la cerimonia dell’11 luglio in cui viene data sepoltura ai corpi, identificati dalle fosse comuni, dell’eccidio di Srebrenica.
Les héros ne meurent jamais ha la forma, come si diceva, del making of e comprende spesso l’esibizione della messa in scena. Nell’inquadratura entra spesso il tecnico del suono con il microfono, e viene continuamente richiamata la presenza della macchina da presa, dell’occhio da cui stiamo guardando. Così la scena si oscura quando la regista Adèle Haenel dimentica la telecamera nel bagagliaio per poi ricordarsene e tornare indietro a riprenderla, restituendo la visione. Viene spesso chiamato per nome l’operatore Paul, unico della troupe che ovviamente non si vede mai, cui la regista si rivolge di frequente per dare indicazioni su dove posizionare la m.d.p. I momenti metalinguistici arrivano all’apice in una discussione tra la regista e Joachin, presente ovviamente l’operatore, richiamato per far inquadrare il secondo, su che forma dare alle riprese, quella del biopic su di lui o quella del reportage. E verso la fine la regista ne anticipa la conclusione, dichiarando così come sia tutto partorito dalla sua fantasia, nonostante l’assoluta verosimiglianza della parte finale.

Può sembrare sterile, quando non irrispettoso verso le vittime, costruire quello che sembra un giochino, attorno a una grande tragedia come questa. Ma è proprio attraverso il ribaltarsi continuo di finzione e realtà che ci si può avvicinare alla seconda. Mentre l’invenzione della reincarnazione sottolinea un modo di coesistenza tra i vivi e i morti, che aleggiano nelle lapidi del cimitero come in ogni centimetro di quella terra martoriata.

Giampiero Raganelli

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