Parigi rivoluzionaria
Malgrado la costante e corretta informazione in merito, malgrado l’elevato numero di vittime nell’arco di pochi decenni, malgrado, ormai, si possa dire di essere perfettamente a conoscenza dei fattori di rischio di contrazione dell’HIV, ancora oggi un lungometraggio come 120 battiti al minuto di Robin Campillo – presentato in Concorso al 70° Festival di Cannes, dove ha vinto il Grand Prix, nonché candidato per la Francia agli Oscar come Miglior Film Straniero – fa il suo effetto sul grande pubblico. Merito del tema trattato? Indubbiamente. In questo caso, però, il merito è anche del lungometraggio in sé e della sua capacità di mettere in scena il suddetto tema in una maniera del tutto singolare ed empatica, riuscendo a gestire la non facile coralità della pellicola ed evitando di cadere nella retorica, come spesso, purtroppo, avviene in casi del genere.
Le storie messe in scena sono quelle di tanti ragazzi. Giovani affetti dal virus, come il fragile ma coraggioso Sean, o che, come nel caso di Nathan, vogliono saperne di più. Ragazzi e ragazze che, in una Parigi degli anni Novanta, militano nell’associazione Act Up Paris, al fine di chiedere un intervento tempestivo contro l’Aids alla politica nazionale ed alle case farmaceutiche. Non hanno paura, questi ragazzi, di andare oltre, di superare i confini di ciò che è lecito e di ciò che non lo è più. Non si fanno scrupoli davanti alla legge o ai cosiddetti potenti. Ciò che conta è il loro fine ultimo.
Nostalgici del compianto Jonathan Demme, che pure nel 1993, con il bellissimo Philadelphia, aveva trattato lo stesso argomento, non disdegnamo, tuttavia, questo ultimo lungometraggio di Campillo, il quale, dal canto suo, dimostra un’ottima padronanza del tema trattato, oltre ad avere un passato come militante proprio all’interno di Act Up.
Ed è già dai primi minuti, dunque, che vediamo questo nutrito gruppo di attivisti in azione, intenti a scagliare palloncini pieni di sangue finto durante una convention proprio sull’Aids. Un urlo di rabbia, il loro, che non cesserà mai durante tutta la durata del lungometraggio. Ciò che maggiormente è riuscito nella messa in scena di 120 battiti al minuto, a tal proposito, è proprio la coralità dei personaggi. Cosa, come sappiamo, assolutamente non facile da gestire. Stesso discorso vale per quanto riguarda alcune sequenze che vedono i protagonisti ballare seguendo una musica ritmata – 120 battiti al minuto, appunto – con effetti visivi dai colori psichedelici e figure che, piano piano, sembrano assumere le forme di molecole di DNA.
In linea di massima a suo agio, dunque, Robin Campillo, nel gestire questo suo terzo film da regista. Gli unici momenti in cui il lungometraggio in sé sembra zoppicare sono, paradossalmente, proprio quelli in cui la storia d’amore tra Nathan e Sean viene messa in primo piano, scadendo pericolosamente nel già visto e facendo perdere, di conseguenza, non pochi punti a tutto il lavoro. Un lavoro che, malgrado il malcelato desiderio (inconscio?) di Campillo di emulare, a tratti, il suo “maestro” Laurent Cantet – con il quale ha lavorato per anni come sceneggiatore e montatore – si è rivelato un prodotto di tutto rispetto. Dimostrazione del fatto che, appena pochi anni dopo l’uscita in sala del poco convincente Eastern Boys (secondo lungometraggio di Campillo), il cineasta sta davvero prendendo, finalmente, una strada tutta sua.
Marina Pavido