Antropologia (horror) senza ipocrisia
Un genio formale della Settima Arte? Forse no, come ben sapeva lui stesso. Certamente però un autore cinematografico che aveva trovato una chiave, attraverso peraltro un genere da sempre erroneamente considerato non idoneo a partorire capolavori “universali”, in grado di denudare le enormi sperequazioni sociali presenti nella società di matrice capitalistica. E renderle perfettamente intellegibili per merito della sopraffina arte della metafora, sia pur priva di quella grazia del resto poco confacente all’argomento.
George A. Romero, scomparso il 16 luglio 2017 a settantasette anni di età, aveva già sconfitto il concetto di morte molto tempo prima, per certi versi esorcizzandolo in paure ancora più profonde. Precisamente nel 1968, quando La notte dei morti viventi conobbe il buio di sale cinematografiche non tradizionali e drive-in. Chissà quanti, all’epoca, tra il pubblico si resero conto della carica dirompente che quel film, tecnicamente tutt’altro che eccelso data anche la povertà dei mezzi, conteneva. Molto pochi, presumibilmente. L’assunto pareva sin troppo semplice: i morti tornavano per cibarsi delle carni dei vivi. Puro esercizio di exploitation horror, ad una prima, superficiale, occhiata. Già, ma chi erano questi affamati ritornanti dall’aldilà? Noi. E i sopravvissuti che lottavano disperatamente per non diventare il loro pasto quotidiano? Sempre noi. George A. Romero – se esiste un Dio del Cinema gli assicuri un posto eterno accanto a sé – stava radiografando il nostro passato, presente e futuro. La gens umana retrocessa ad un coacervo di istinti primordiali. Mangiare per esigenza fisiologica e non essere mangiati per non omologarsi alla massa “orripilante”. Proletariato contro borghesia, disse e scrisse qualcuno. Tuttavia si parla sempre di noi. Gli stessi che ora, in una società fintamente opulenta che abbiamo imparato a conoscere bene, organizziamo barricate nei confronti di gente in cerca di briciole di benessere, esattamente come accadeva nel secolo scorso al civilissimo e avanzato popolo occidentale fiaccato dalla povertà. Poi lo spettro di un futuro, ipotetico ma niente affatto distopico: cosa accadrebbe se d’un tratto la ricchezza svanisse? Eliminata la fauna commestibile ci sbraneremmo l’un l’altro per tacitare la fame insopprimibile?
George A. Romero ha trovato un filone cinematografico e, giustamente, a continuato a scavare all’interno di esso. A sperimentare sulla cosiddetta “evoluzione della specie”. Talvolta fingendo di giocare, talvolta facendo maledettamente sul serio senza equivoci di sorta. Ma ad ogni tappa la metafora si arricchiva di nuovi, inquietanti, particolari. Un supermercato simbolo combinato ad un’inaudita aggressione splatter (Zombi, 1978), una critica militare di raggelante cupezza (Il giorno degli Zombi, 1985), oppure un contagio globale esaminato mediante le nuove tecnologie (il meraviglioso Le cronache dei morti viventi, 2007) quasi a fungere da veicolo infettivo. Non avevamo e abbiamo scampo, questa è la verità. Lo zio George ce l’ha sempre ripetuto, in ogni suo lungometraggio. Anche in quelli dove gli zombi non erano presenti. Il seminale La città verrà distrutta all’alba (1973), esplicitazione di un terrore reale nemmeno troppo recondito. L’assoluta simbiosi uomo/scimmia nel sottovalutatissimo – nonché manipolato, ma non fino in fondo, dalla produzione – e definitivo apologo thriller dal titolo Monkey Shines (1988). In mezzo e oltre tante digressioni, ludiche o molto meno, sulla natura del diverso, la sofferenza suprema di chi ha osato guardarsi dentro, fisicamente e/o moralmente. In fondo George A. Romero è stato un educatore sui generis che ha provato a farci paura, riuscendoci appieno, ma in realtà suggerendoci altro. Ma noi, troppo terrorizzati, ci siamo schermati dei nostri timori allo scopo di far finta di nulla. Il gioco della paura era allora ed è sempre stato, per l’appunto, un gioco. Riservato a quelle persone impressionabili ben felici di sacrificare qualche notte insonne per poi dimenticare.
Al contrario sappiamo che verrà il giorno in cui davvero “i morti cammineranno sulla Terra“. O, chissà, è già arrivato di soppiatto, senza farsi scoprire. Ci siamo mai guardati veramente attorno, magari con quegli occhiali dalle lenti spesse presi in prestito dallo zio George?
Daniele De Angelis