Come un figlio
Se contare le pecore ha rappresentato e continua a rappresentare per molti un metodo efficace per addormentarsi, al contrario coloro che nel 2006 hanno avuto la sfortuna di imbattersi in Black Sheep, ma soprattutto lo stomaco abbastanza resistente per portare a termine la visione, avranno trovato di certo stratagemmi alternativi per riuscire a cadere tra le braccia di Morfeo. Le pecore mutanti e assassine protagoniste del travolgente e sanguinolento splatter diretto e sceneggiato da Jonathan King hanno di fatto ribaltato completamente l’idea comune che si tratti di animali docili, con i cinefili di turno che al solo pensiero di ciò che hanno visto a suo tempo avranno smesso di dormire sonni tranquilli. Da quel momento in poi, ogniqualvolta che in un film di genere si tirano in ballo pecore e agnelli, lo stare sul chi va là scatta di default. Motivo per cui alla sola lettura della sinossi di Lamb di Valdimar Jóhannsson, premiato nella sezione “Un Certain Regard” di Cannes 2021 prima dell’uscita nelle sale nostrane con Wanted Cinema e i passaggi sugli schermi di “Alice nella Città” alla Festa del Cinema di Roma e al Trieste Science + Fiction Festival, il campanello d’allarme ha iniziato a suonare.
C’è da dire che rispetto all’horror del cineasta neozelandese, divenuto per molti un cult del filone, quello del collega islandese non percorre la strada del truculento, anzi nella stragrande maggioranza dei casi la violenza non viene esplicitata ma lasciata fuori campo o attenuata dalla messa in quadro. L’autore non mira alla mattanza al di sopra le righe ed esasperata, bensì a in mix di toni che unisce senza soluzione di continuità il dramma familiare, la fantascienza, l’orrore e quel retrogusto inconfondibile di humour grottesco e sottile che da sempre accompagna le cinematografie scandinave. Tra queste figura proprio quella islandese, che a giudicare da quello prodotto negli ultimi anni, appare incapace geneticamente come quelle limitrofe di essere banale e poco originale. In tal senso, Lamb ne è l’ennesima riprova, con una storia che fa dell’imprevedibilità e del disallineamento in termini del già visto due dei tanti punti di forza. Se le dinamiche interne possono in qualche modo rievocarne altre analoghe, diversamente le evoluzioni dei personaggi e gli sviluppi del racconto sono capaci di cogliere in contropiede il fruitore.
L’esordio di Jóhannsson ci porta al seguito di una coppia senza figli che vive con il gregge che alleva in una bella ma isolata fattoria nel mezzo del nulla. Quando trovano un misterioso neonato nell’ovile, decidono di tenerlo e allevarlo come un figlio. Questo inaspettato sviluppo, e la prospettiva di una nuova famiglia, sono fonte di immensa gioia. Ma presto si troveranno ad affrontare le conseguenze dell’aver sfidato le leggi della natura. Le stesse che porteranno alla loro distruzione.
Del resto la pecora torna sempre all’ovile, ma non quando qualcosa o qualcuno glielo impedisce. Nel caso di Lamb lasciamo alla visione il compito di svelarlo con un epilogo che sembra ristabilire l’ordine naturale laddove è venuto meno. Non è la prima volta che accade e non sarà nemmeno l’ultima con la lotta che matura e si consuma sul terreno primordiale dell’istinto materno. Tutto ruota intorno allo scontro tra una madre biologica e una acquisita, con la gelosia e l’astio reciproco che alimenta il fuoco di un conflitto che monta via via sino a divampare. La tensione latente e la sua costruzione, così come l’orrore, scorrono sotterranei in un’opera che sa come tenere a sé lo spettatore. La coppia protagonista formata da Noomi Rapace e Björn Hlynur Haraldsson unisce intensità a dolore, con le musiche a magnetiche e avvolgenti di Thorarinn Guðnason che accompagnano gli interpreti in questo faccia a faccia con Madre Natura e le sue regole non scritte. Ciò rende la pellicola un piccolo gioiellino da non lasciarsi sfuggire.
Francesco Del Grosso