Come in tanti specchi
Quasi preannunciato dal precedente film, Frantz, François Ozon torna al tema del doppio, del triangolo amoroso mettendo in scena la storia di Chloé, donna che avvia una relazione amorosa con il suo psicoterapeuta, che si scopre avere un fratello gemello monozigote. Il film è tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates “Lives of the Twins”, uscito nel 1987 e di cui sono evidenti le analogie con il film Inseparabili (Dead Ringers) di David Cronenberg, anche per altri temi e situazioni oltre a quello dei gemelli, come la ginecologia. Due opere uscite nello stesso periodo, per cui appare difficile discernere chi si sia ispirato a chi. Ozon sostiene che sia stata la scrittrice a riprendere il film del regista canadese. Fatto sta che ora è inevitabile un confronto tra i due film, L’amant double (nella versione italiana Doppio amore) e Inseparabili, laddove è sicuramente Ozon a uscirne con le ossa rotte. Il film di Cronenberg, pur con tutte le differenze, era davvero un film carico di perversione, cui lo stucchevole Ozon cerca invano di avvicinarsi. Il regista canadese era già ozoniano ante litteram e contemplava alcune delle ossessioni morbose che sarebbero state del regista francese. E non basta il ménage à trois dove anche i due gemelli arrivano a baciarsi tra di loro, aggiungendo la componente bisex. In una costruzione dell’immagine che si altera come in uno specchio deformante, dove i personaggi diventeranno a due teste, anticipando l’idea di malformazione del gemello parassita. E non basta nemmeno, per affondare nel torbido, attingere da un immaginario pornografico, come per esempio citare la pratica del “pegging”, un immaginario piatto e banale.
Banale è tutto l’impianto metaforico, dove allo specchio deformante di cui sopra seguirà tutta una serie di immagini riflesse, citando anche La signora di Shangai, e dove la malformazione, l’anomalia genetica, diventerà un filo conduttore. Così i generi sessuali, per Ozon, sono sempre intercambiabili e mescolabili e anche i gatti calico, quelli tartarugati per intenderci, che sono femmine perché la loro colorazione è dovuta a un gene sul cromosoma femminile, sono maschi, facendo parte di quella rarissima eccezione legata a un’anomalia cromosomica, la trisomia XXY. In L’amant double abbondano le analisi, l’ecografia ma ancora tutto sembra più debole ed edulcorato dell’utero triforcuto concepito da Cronenberg, elemento, questo sì, davvero ‘sick’. Ozon ammanta tutto di un senso medico e psicoanalitico. E, tra le tante derivazioni cinematografiche di L’amant double, c’è anche quella che porta dritta a Hitchcock. Chloé è una nuova Marnie, in una storia di terapia sessuale. Ma molte cose credibili all’epoca del grande regista inglese ora non lo sono più. Ozon infarcisce il film di tutta una serie di simboli e metafore banali che sembrano prese da un Bignami della psicoanalisi. Fino all’apoteosi dell’occhio-vagina, una scena anche molto bella figurativamente, ma ancora schematica, banale ed esibita nel significato.
Con L’amant double François Ozon vorrebbe realizzare un paradossale ménage à trois, laddove i tre vertici del triangolo sono rappresentati da psicanalisi, anatomia e arte, elementi che si dovrebbero mescolare e sconfinare l’uno con l’altro. L’arte è rappresentata dall’attività di Chloé, di agente di custodia in una galleria dove vengono esposte opere contemporanee, ancora provocatorie e sgradevoli che possono ricordare organi corporei, e che si ricollegano ad altri momenti del film come quello del cuore felino. Forse il film sarebbe riuscito meglio potenziando questo terzo elemento e invischiandolo e contaminandolo sempre di più con gli altri due.
L’amant double arriva dopo un’opera come Frantz che aveva segnato un salto di qualità della carriera già ragguardevole di Ozon. Per la quale in fondo gli si può perdonare uno dei suoi rari tonfi come questo.
Giampiero Raganelli