Home Festival Torino 2015 Lace Crater

Lace Crater

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VOTO: 6.5

A chi non piacciono i fantasmi?

Definire Lace Crater, opera prima del ventiduenne Harrison Atkins, presentata in anteprima italiana nella sezione After Hours del Torino Film Festival 2015, un oggetto anomalo è quantomeno riduttivo. Certo la sua parziale appartenenza al cosiddetto genere mumblecore (complice la presenza sia come produttore che come attore di Joe Swamberg, figura chiave per i film indipendenti a basso costo) dovrebbe chiarire un po’ di più la situazione. Eppure troppe sono le suggestioni eterogenee, troppi gli scarti repentini di registro o la frammentarietà della narrazione perché si possa ricondurre il tutto alle semplici logiche di genere.
Quello che è chiaro è che la giovane protagonista Ruth, dopo una serata a base di ecstasy e farfugliamenti esistenziali, ha finito, rimasta sola nella dependance della villa di un amico, col fare sesso con il fantasma che la infestava.
Si può immaginare, a questo punto, la confusione e lo sgomento al suo risveglio, soprattutto quando, col passare dei giorni, sarà chiaro che qualcosa, qualcosa di terribile, in quella notte, qualcosa di molto simile a una sorta di malattia venerea dai caratteri soprannaturali, le è stato trasmesso, contagiandola.
Per quanto dalle premesse si potrebbe erroneamente immaginare, Lace Crater non è una black comedy. O, per lo meno, non lo è nella misura in cui potrebbero esserlo i recenti Buryng the Ex di Joe Dante o Life After Beth di Jeff Baena (altro After Hours della passata edizione).
Non lo è a partire dalla confezione, da uno stile capace di alternare all’estetica traballante (ma accurata) da low budget sprazzi di puro sperimentalismo visivo in un sovraccarico emotivo e drammatico in grado di annullare qualsiasi comicità a lungo termine, qualunque effetto straniante che sconfini nel grottesco divertito.
Cinema indie per vocazione prima ancora che per necessità, con un occhio ben rivolto a classici dell’horror indipendente quali Begotten di E. Elias Merighe, e l’altro fisso sulle dinamiche della commedia, con un’attenzione molto forte per le relazioni interpersonali, Lace Crater fa della sua anomalia schizofrenica un apologo sull’alienazione e la solitudine contemporanea.
É quello che ha fatto o l’isolamento a cui la sua azione l’ha condotta a trasformare lentamente la povera Ruth in qualcosa di sempre meno umano, in qualcosa destinato, forse, a scomparire per sempre?
Tra suggestioni psichiche e sconfinamenti nel body horror cronenberghiano, questa mina impazzita con tutte le carte in regola per diventare un piccolo cult nei circuiti festivalieri, nonostante imperizie e difetti ben evidenti, riesce nell’intento manifesto di sorprendere, spiazzare, stupire.
Staremo a vedere se questo giovane, promettente videomaker riuscirà a tramutare tutta quella forte consapevolezza estetica in un altrettanto consapevole rigore concettuale.

Mattia Caruso

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