Imbrigliati nella rete del fantasma ‘mitico’e ricattatorio della famiglia
Quando tutto ha inizio siamo a Napoli, primi anni ´80: il matrimonio di Aldo (un Luigi Lo Cascio che non smentisce la sua capacità di giocare coi registri) e Vanda (un’Alba Rohrwacher credibile perché ben diretta negli up & down) entra in crisi quando lui si innamora della giovane Lidia (resa spensierata e bella da Linda Caridi). Trent’anni dopo, Aldo (Silvio Orlando) e Vanda (Laura Morante) sono ancora sposati. In poche righe, come si può notare, si è esaurito il plot di Lacci, tratto al romanzo di Domenico Starnone (per il New York Times uno dei 100 migliori libri del 2017), scelto come film d’apertura della 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e dal 30 settembre in sala con 01 Distribution.
Prima di diventare un lavoro giusto per il grande schermo, questo testo era stato portato in scena nel 2016/2017 (regia di Armando Pugliese) e aveva tra i protagonisti proprio Silvio Orlando sempre nei panni di Aldo, mentre Vanessa Scalerà dava corpo a Vanda. C’è un punto di forza che va assolutamente evidenziato: la parola. In tal senso verrebbe da pensare che sia più ‘adattabile’ per il palcoscenico, ma Luchetti con lo stesso Starnone e Francesco Piccolo l’hanno saputa rendere una peculiarità del lungometraggio – merito anche dell’ottimo cast in grado di reggerla – senza che, però, il film diventasse verboso.
«Se io mi ci metto, te la faccio pagare» asserisce Vanda. Potremmo tranquillamente affermare che già il titolo di libro/spettacolo e film è parlante. Un altro aspetto che merita una sottolineatura è il lavoro sul rumore e togliere la parola e questo lo si percepisce già dalla prima scena. Sono inquadrati i piedi, stanno per ballare tutti insieme, in fila uno dietro l’altro (adulti e bambini), è Carnevale, eppure il pubblico intuisce dallo sguardo di Aldo – e da quello di risposta della moglie – che nel loro nucleo familiare non c’è spirito di festa. Proprio perché la sinossi è lineare, se vogliamo anche conosciuta, il ‘bello’ di quest’opera sta nel come scandaglia la famiglia e le dinamiche ad essa annesse, passando da dialoghi fittissimi, da un botta e risposta dove le parole possono essere taglienti come lame a sguardi e sotto testi che arrivano a ferire più di uno schiaffo. Non era semplice trovare un equilibrio in questa prospettiva; ma sia sul piano della scrittura che di recitazione e regia, il cast artistico e tecnico ci sono riusciti, pur trattando qualcosa che qualcuno potrebbe definire ‘già visto’, eppure probabilmente – visto anche l’evolversi della famiglia – non è mai abbastanza impastarci le mani.
Fin dalla cosiddetta notte dei tempi, la letteratura e l’arte non hanno avuto timore di mostrare le disfunzioni all’interno del nucleo famigliare; d’altro canto, però, in particolare la pubblicità ci ha propugnato l’immagine della famiglia felice. Nei primi minuti di Lacci sembra proprio che sia così, quando li si vede tutti e quattro sul divano. I romanzi, la drammaturgia contemporanea (basti pensare a “Il dio della carneficina” di Yasmina Reza o “Provando… dobbiamo parlare” scritto da Sergio Rubini con alcuni collaboratori storici) e la Settima Arte vogliono ‘buttarci in faccia la realtà’ e noi gliene dovremmo essere grati per provare ‘a non raccontarcela’ e ‘a non chiudere gli occhi’. Cosa vuol dire relazionarsi con un altro di cui ci si sente innamorati? Dopo anni cosa accade? E il per sempre esiste ancora?
Christian Raimo, parlando del romanzo di Starnone, l’ha definito una tragicommedia del rimatrimonio. «La sua maestria è giocata sull’ellissi: sul suo dire tantissimo dandoci invece l’impressione di togliere informazione. L’incipit di Lacci è un colpo di stile: “Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all’improvviso, ti dà fastidio. Lo so che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita ordinata, doverti ritirare a casa a ora di cena, dormire con me e non con chi ti pare, ti fa sentire cretino. Lo so che ti vergogni di dire: vedete, mi sono sposato l’11 ottobre del 1962, a ventidue anni; vedete, ho detto sì davanti al prete, in una chiesa del quartiere Stella, e l’ho fatto solo per amore, non dovevo mettere riparo a niente; vedete, ho delle responsabilità, e se non capite cosa significa avere delle responsabilità siete gente meschina. Lo so, lo so benissimo. Ma che tu lo voglia o no il dato di fatto è questo: io sono tua moglie e tu sei mio marito, siamo sposati da dodici anni – dodici anni a ottobre – e abbiamo due figli, Sandro, nato nel 1965, e Anna, nata nel 1969. Ti devo mostrare i documenti per farti ragionare?“.
È l’inizio della prima di nove lettere di Vanda; e in poche righe c’è presentato già tutto: il contesto, le dramatis personae, la tensione portata al limite della relazione, il conflitto valoriale tra la società pre-liberazione sessuale e quella post-liberazione sessuale”» (Raimo, Christian, “Imparare da Domenico Starnone”. Internazionale, 8 marzo 2015).
Non vogliamo togliere il gusto di scoprire alcuni passaggi a chi non avesse letto il libro e non conoscesse in dettaglio l’analisi lucida e pungente – senza sconti – che fa dell’essere umano, di noi, e delle relazioni – comprese le debolezze e ciò che non vogliamo osservare. Va detto, però, che proprio per adeguarsi al linguaggio cinematografico sono state effettuate delle modifiche rispetto al tasto delle lettere.
In uno sviluppo in cui i piani temporali si sconnettono e intersecano, proprio come i lacci, in particolare quelli che ci faranno chiudere il cerchio alla fine, una chiave di volta viene offerta dalla figlia Anna (Giovanna Mezzogiorno), che con una voce calda e, al contempo, ironica pungola il fratello.
Quando si tiene tutto (troppo) dentro prima o poi si sbotta. In questa prospettiva degne di lode sono la scena di S. Orlando (sempre ottimo negli exploit sia in scena che davanti alla macchina da presa), ma anche il confronto tra i due fratelli (in parte anche Adriano Giannini, il fratello che forse voleva proteggere la sorella, pur essendo lui minore), rimandato, rimandato e poi accade nella casa romana, quella in cui Anna non riesce a mettere più piede.
In Lacci viene sviscerato come lo stare insieme significhi adeguarsi e accogliere l’altro reciprocamente, qual è, però, il limite oltre cui si diventa solo delle ‘maschere’ per dei ruoli costruiti ad hoc? Ognuno di noi potrebbe rispondere diversamente, ma (permetteteci la confidenza di questa espressione), senza prenderci in giro, alcuni punti in comune li potremo cogliere con ognuno di questi personaggi-persone.
«Lacci è un film sulle forze segrete che ci legano. Non è solo l’amore ad unire le persone, ma anche ciò che resta quando l’amore non c’è più. Si può restare assieme per rancore, nella vergogna, nel disonore, nel folle tentativo di tener fede alla parola data. Lacci racconta i danni che l’amore causa quando ci fa improvvisamente cambiare strada e quelli – peggiori – che produce quando smette di accompagnarci» ed è con queste parole emblematiche di Luchetti che vogliamo concludere, rilanciando la palla a voi e a quando potrete vederlo al cinema, decidendo – se vorrete – di fare i conti con voi stessi e coi vostri ‘fantasmi familiari’ (che possono essere anche viventi).
Maria Lucia Tangorra