Il fuoco di Ema
Tre lettere a comporre un titolo, un nome proprio, Ema. Un titolo semplice per un film invece estremamente complesso, percorso da una trama dai tratti originali e stratificato a livello semantico. L’ultima fatica del cineasta cileno di fama internazionale Pablo Larraín, presentata in anteprima durante la passata edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è un lavoro che indaga la natura umana nei suoi istinti innati e primordiali, ma al tempo stesso sfida e provoca alcuni capisaldi della società globale e globalizzata, ribaltando e, per certi versi, distruggendo una delle sue principali istituzioni: la famiglia.
Chi è Ema? Ema è una giovane ballerina che vive a Valparaíso. Il suo matrimonio con il coreografo Gastón è in crisi dopo che i due hanno deciso di lasciare a un’altra famiglia il piccolo Polo, orfano di sette anni che avevano in precedenza adottato, ma che si era rivelato alquanto problematico, arrivando perfino a dare fuoco ai capelli della zia, la sorella di Ema.
Questo, però, è solamente un ritratto, o meglio un abbozzo, di quello che Ema è, soprattutto nella mente di Larraín, che porta sullo schermo un personaggio che concettualmente va al di là delle sue mere azioni, del ruolo che ha all’interno della vicenda. Ema è, infatti, una figura portatrice di una forte carica eversiva, una ragazza ammaliante, sensuale, decisa, che non riconosce alcuna autorità all’infuori dei propri desideri, alcuna struttura sociale all’infuori dei suoi molteplici affetti. Poco importa che quest’ultimi si ritrovino a cozzare in maniera evidente, tra mariti, amanti, tradimenti ed orge. Ecco perché Ema è uno dei protagonisti più interessanti e coinvolgenti del panorama cinematografico degli ultimi anni. In un solo colpo, in un solo lungometraggio di poco più di un’ora e tre quarti vediamo cadere e liquefarsi al suolo come vecchi edifici in preda alle fiamme (elemento non secondario all’interno di Ema è, non a caso, il fuoco) il patriarcato, la famiglia tradizionale e soprattutto il confine tra ciò che per amore, materno, in questo caso, è considerato lecito e ciò che non lo è.
Se Ema rapisce, gran parte del merito va senz’altro riconosciuto all’interpretazione dell’esordiente Mariana Di Girolamo. Chi scrive vede un futuro luminoso e ricco di successi per la giovane attrice cilena e, in cuor suo, se lo augura. Con il suo look audace, non assimilabile né a una moda maschile né a una moda femminile, che richiama, invece, alla memoria un certo affezione forse oramai un po’ vintage per le tute Adidas (proprie della periferia, non solo cinematografica, ma anche urbana, dove, a volte, diventano una sorta di divisa ufficiale per le giovane generazioni), con la passione feroce e a tratti animalesca per il reggaeton che unisce lei e le sue amiche, Ema brilla di luce propria, una luce anche pericolosa, che brucia, come detto, molto di quello che incontra, ma che sa anche illuminare, quando la giovane ritrova la propria serenità interiore. Ella farà di tutto per riavere indietro il proprio figlio adottivo Polo, incurante delle conseguenze, o meglio sicura delle proprie capacità di annullarle, di ridurle a nulla, in una Valparaíso, microcosmo del nostro mondo, che davanti alla sua danza, davanti al suo fascino e alla sua assoluta libertà e disinibizione non può che vedere i propri pilastri sociali e culturali piegarsi e crollare. È il nuovo che avanza, è la fenice che rinasce e non è più la stessa.
Non è un caso se nel prologo di Ema la prima inquadratura sia dedicata a un semaforo che brucia. E non è un caso che, come poi si vedrà, a questo semaforo abbia dato fuoco la stessa Ema. “Fermati, accelera, vai avanti” appaiono come tre imperativi coercitivi e limitanti di quello che, nell’immaginario di Larraín, diventa il simbolo di un’autorità da abbattere, in un universo che ha perso la propria bussola e ora corre qua e là, impazzito, «come una lucertola che ha perso la coda». Un’autorità che riguarda soprattutto i costumi e le regole del vivere civile, qui fredde e insensibili davanti a una madre che ama suo figlio alla follia, in una maniera che è considerata socialmente pericolosa, se non proprio inaccettabile (e ben rappresentata nel film dalla figura dell’assistente sociale). La musica e i balli reggaeton diventano la scintilla da cui far partire la rivoluzione, delle note considerate erroneamente vuote dal marito Gastón (ben portato sullo schermo da Gael García Bernal, uomo di fiducia del regista cileno), che le considera composte per addormentarsi nella sconfitta, nell’apatia e che, invece, nell’interpretazione di Ema e del suo gruppo di amiche, diventano inno d’amore, d’amore libero, di un istinto e di una passione naturali che tutti sembrano aver dimenticato, e che pure e così facile risvegliare se si sceglie di abbandonarsi totalmente a questo sentimento al tempo stesso distruttivo e rigenerativo.
I lenti e precisi carrelli all’indietro di Larraín accompagnano Ema e lo spettatore lungo il loro percorso, così come i rapidi e coinvolgenti montaggi con il sonoro e per il sonoro. Le sequenze di danza, alcune anche esteticamente notevoli dal punto di vista fotografico, con i loro viraggi in rosso e in blu, rendono giustizia alla riuscita colonna sonora proposta dal giovane Nicolas Jaar. Ema si chiude sul volto magnetico della sua protagonista e, con la vittoria di quest’ultima e la sua liberazione dal passato, si fa, in modo splendido e consapevole, opera d’arte per tempi nuovi e desideri nuovi.
Marco Michielis