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Il gusto delle cose

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VOTO: 7.5

Il pranzo di Juliette

Non è certo la prima volta, nel cinema, che il cibo assurge a primaria fonte di comunicazione. Di emozioni e sentimenti. Elaborate ricette come forma d’arte, capace di generare una nuova forma di linguaggio inerente non solo allo stomaco di chi le gusta.
Qualche esempio: Il pranzo di Babette di Gabriel Axel (1987), oppure Mangiare bere uomo donna di Ang Lee (1994). Opere che mettevano il cibo in primo piano per parlare anche di altro, di stratificazione dei rapporti umani. Direttamente dal Festival di Cannes 2023 – dove ha vinto il premio per la migliore regia – arriva alla diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma, sezione Best of 2023, La passion de Dodin Bouffant (per l’uscita italiano Il gusto delle cose) diretto dal regista vietnamita, ma francese d’adozione, Tran Anh Hùng. Il quale sin dai tempi del bellissimo Il profumo della papaya verde (1993) realizza lungometraggi molto “alla francese”, cioè estremamente raffinati nella costruzione dell’immagine nonché ricchi di dialoghi assai pregnanti. Un modello cinematografico che, molto alla leggera, può essere tacciato di banale calligrafismo. Tran Anh Hùng ne ripete fedelmente gli stilemi anche ne La passion di Dodin Bouffant, come sempre provando a colpire occhio e cuore dello spettatore. In quest’occasione con esiti altamente positivi.
Eugénie è da vent’anni la cuoca di Dodin Bouffant, ricco signore e bravissimo chef. La sfida, per entrambi, è quella di preparare nuove ricette per gli illustri ospiti, buongustai che adorano le loro capacità culinarie. L’intesa tra Eugénie e Dodin, nel corso del tempo, assume significati non solo dettati dalla gastronomia; ma quando decidono di fare il grande passo il destino non può che essere in agguato…
Se Renoir padre, il celeberrimo pittore impressionista, avesse avuto i mezzi per girare un film prima di suo figlio Jean, ebbene questo sarebbe potuto essere La passion de Dodin Bouffant. Cibi disegnati ad arte e madre natura splendidamente fotografata si alternano senza sosta, ovviamente con i due personaggi principali al centro del quadro in movimento. Tran Anh Hùng – anche sceneggiatore unico – appassiona poiché scava nel profondo della parte più intima dei due, mostrando nel film ciò che raramente riesce anche ad autori dal nome altisonante: raggiungerne l’essenza. Impossibile non farsi affascinare dalla complessità di un rapporto che si nutre di prelibatezze materiali e contraddizioni sentimentali. Ci voleva lo sguardo sensibile del regista di Cyclo per non far scadere l’insieme nel più bieco sentimentalismo ricattatorio; al contrario, proprio come gli impressionisti del tempo che fu, Tran Anh Hùng lascia decantare la bellezza di cose e persone (Juliette Binoche, come di consueto mirabile interprete di Eugénie) per poi piazzare, con aggraziata brutalità, il classico pugno nello stomaco. Perché ogni persona fa parte di un ciclo naturale, che si estinguerà per poi ricominciare con altre persone. Esemplare, in tal senso, il personaggio della giovanissima Pauline introdotta nel casato da sua zia Violette – sempre a servizio di Dodin – e rimasta fortemente colpita dalle modalità di preparazione dei vari cibi. Una bambina che prima Eugénie poi Dodin (un esaltante Benoît Magimel) prenderanno sotto la loro ala protettiva, allo scopo di tramandarle tutto il loro sapere.
E rispondendo indirettamente alle accuse inerenti una certa “passività” del personaggio femminile, calmo e composto, nei confronti di quello, energico, maschile, Tran Anh Hùng regala un’ultima sequenza da manuale, che già da sola giustificherebbe il riconoscimento ottenuto a Cannes: un reiterato carrello circolare sulla cucina ormai vuota che però culmina con un flashback di Eugénie e Dodin seduti al loro tavolo. Lei chiede a lui: “Mi vedi come moglie o come cuoca?“. Lui risponde: “Come cuoca“. Perfetto riassunto di un amore definito, non più alla ricerca di una qualsiasi identità.

Daniele De Angelis

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