Tombaroli di provincia
Il talento di Alice Rohrwacher sta tutto nella sopraffina capacità di far convivere in ogni sua opera realismo e surrealismo, quest’ultimo posizionato al labile confine del fiabesco. La realtà alligna nella cornice, cioè in un’ambientazione in prevalenza rurale così accurata da far ricordare i più celebri lavori di Ermanno Olmi, spesso citato a modello dalla stessa regista. Il resto – le azioni dei personaggi, i loro rapporti – scivolano direttamente nella fantasia, non risparmiando mai sottili critiche morali all’elemento primario che riesce a far muovere le cose. Ossia il denaro.
Allo stesso modi di Lazzaro felice (2018) anche in questo La chimera – presentato nella sezione Best of 2023 della Festa del Cinema di Roma, dopo il passaggio in concorso al Festival di Cannes 2023 – arriva un personaggio maschile a smuovere la decorosa routine di un non precisato paesino dell’alto Lazio. In verità per il giovane Arthur (di nazionalità inglese o forse irlandese, come afferma un paesano nel corso de La chimera) si tratta di un ritorno, a seguito di un determinato periodo trascorso in prigione. Il ragazzo infatti è molto conosciuto per la sua dote innata di scovare, con tecniche da rabdomante, le tombe etrusche sepolte in zona. Attraverso cui, la sgangherata gang in stile I soliti ignoti, conta di sistemarsi una volta per tutte grazie al remunerativo traffico di oggetti d’antiquariato. Il colpo tanto agognato alla fine viene anche messo a segno, sia pur in modalità a dir poco rocambolesche; e tuttavia niente andrà per il verso giusto.
Alice Rohrwacher possiede una poetica cinematografica ormai pienamente acquisita. I suoi film scorrono leggiadri verso il nulla, sospesi tra passato e futuro, ignorando bellamente qualsiasi sviluppo programmaticamente narrativo per cercare invece l’essenza di personaggi in cerca di collocazione. Non solo nell’ambito dell’opera di cui fanno parte ma soprattutto in quella sorta di esistenza parallela in cui i desideri, se non si realizzano completamente, perlomeno riescono ad essere sognati nella loro interezza. Una chimera, appunto. La medesima che, tra le righe del lungometraggio, auspica la stessa Rohrwacher: un mondo privo di interessi economici in grado di corrompere qualsiasi cosa, anche rapporti interpersonali in apparenza molto solidi.
Al pari delle favole migliori anche La chimera trova un retrogusto morale assieme semplice e complesso. Semplice dal punto di vista dell’ingenua gioventù che popola il film, ancora pura nel proprio modo di ragionare; complessa poiché l’umanesimo dell’autrice analizza ogni aspetto dell’opera – personaggi, azioni e reazioni – con la massima stratificazione possibile.
Si presterebbe ad una molteplicità di illustri paragoni, il modus operandi di Alice Rohrwacher. Il già citato naturalismo di Olmi, il simbolismo grottesco di un Federico Fellini agli albori della sua arte. Parallelismi tanto avventati quanto imperfetti, esattamente come il cinema della Rohrwacher. Che a tutto ambisce tranne a raggiungere un grado di perfezione tale da renderlo inappuntabile. Al contrario (tanti) pregi e (pochi) difetti convivono splendidamente, in un’opera che guarda alla Settima Arte puntando gli occhi sul futuro pur non tralasciando affatto un presente, assai critico, in continua evoluzione.
Un Cinema comunque da amare di un amore pressoché impossibile, destinato com’è a chiudersi nella lunga, bellissima, parentesi della sua durata.
Daniele De Angelis