Uguale eppure diverso
Appare quantomai palese il fatto che Alice Rohrwacher, con Lazzaro Felice, abbia ulteriormente alzato il livello di ambizione rispetto alle sue due opere precedenti, ovvero Corpo celeste (2011) e Le meraviglie (2014). In questa sua ultima fatica – presentata in Concorso al Festival di Cannes 2018, dove si è aggiudicata il riconoscimento per la miglior sceneggiatura – viene in larga parte eliminata la componente autobiografica, dando così vita ad un lungometraggio che, pur mantenendo in buona parte la cifra poetica dei precedenti, se ne vuole distaccare in modo netto, quasi a voler recidere quella sorta di cordone ombelicale per nascere a nuova vita. Sovrapponendo, in tal senso, la figura del giovane protagonista del titolo a quella dell’autrice del film.
Realismo intriso di magia, favola morale, ritratto metaforico di un paese, il nostro, del tutto privo di bussola. Potrebbero (co)esistere diverse definizioni per etichettare un’opera come Lazzaro Felice. Ognuno scelga quella che sente più vicina alla propria sensibilità. Resta però la realtà di un film volutamente scisso in due capitoli, dalle caratteristiche differenti sia pur legate dalla presenza del giovane personaggio principale. Uguale nel fisico, diverso nello spirito. Ancora una voltaal pari del cinema di chi l’ha partorito.
In una campagna laziale, ma astratta e perciò universale, una comunità di contadini fuori dal tempo viene ritratta nella vita quotidiana. L’omaggio al cinema antropologico del recentemente scomparso Ermanno Olmi sembra affatto casuale, tanto più che la Rohrwacher lo arricchisce con una sorta di confronto di classe, descrivendo l’origine del rapporto d’amicizia tra il contadino Lazzaro e il giovane marchesino Tancredi. La narrazione si fa efficace osservazione, umana e ambientale; mentre la descrizione dei personaggi acquista spessore man mano che si procede. Lazzaro è un ragazzo dalla purezza intangibile, ignaro delle brutture del mondo. Tancredi è, viceversa, già svezzato e pronto ad affrontare con malizia le trappole disseminate dall’esistenza. La caduta accidentale di un febbricitante Lazzaro da una rupe apre il film verso nuovi orizzonti. Fedele al proprio nome, il personaggio principale torna a nuova vita. Ma il tempo è trascorso e ogni cosa, attorno a lui, è cambiata. Così, da personaggio per natura stanziale nel tranquillo ventre della campagna, Lazzaro viene quasi costretto all’esplorazione di altri posti, incontrando di nuovo antiche conoscenze ormai cresciute ed emigrate in una metropoli indefinita.
In questa seconda parte, decisamente la più rischiosa, la Rohrwacher osa il racconto simbolico, ritraendo Lazzaro come spettatore attivo – sempre mantenendo un’innocente verginità – alla Forrest Gump di un mondo abituato a (soprav)vivere fuori da qualsivoglia regola. Lo sguardo registico si muove, da un punto di vista cinematografico, tra Fellini e tracce di Lynch, sommi autori assai meno distanti di quanto la geografia e le differenti epoche d’appartenenza farebbero supporre. La trappola ultima, dunque, sarebbe per la regista quella di far divenire Lazzaro Felice una sorta di campionario culturale da esibire, non mancando nemmeno un solido radicamento letterario con tanto di citazione esplicita del “Racconto di Natale” a firma Dino Buzzati, specificamente nell’episodio dell’accesso negato in chiesa al gruppo nomade a cui Lazzaro si è aggregato. Con la musica sacra a far le veci dell’essenza di Dio. Eppure, nonostante alcune cadute nel qualunquismo più ovvio – ad esempio, nel prefinale, il tentativo di linciaggio nei confronti di Lazzaro all’interno della banca – Alice Rohrwacher si riscatta attraverso folgoranti visioni: quel lupo mai domo che vaga “contromano” nel traffico cittadino durante l’epilogo difficilmente si dimentica.
Il tutto, allora, a sancire un’opera forse meno compatta di quelle che l’hanno preceduta ma in continuo divenire, da metabolizzare nel corso del tempo e capace di rendersi vitale sia nei momenti più scontati che in quelli maggiormente personali. Grazie all’ipotetico Dio della Settima Arte, Alice Rohrwacher continua ad essere una “mosca bianca” nell’asfittico panorama italico. Un piccolo insetto dallo sguardo curioso, febbrile ma mai molesto.
Daniele De Angelis