Segreti in famiglia
La famiglia non è affatto il nucleo fondativo della società civile più o meno contemporanea. Bensì un luogo astratto dove si annidano bugie o silenzi, variegati drammi quando non orrori veri e propri. Ne è consapevole il regista belga Joachim Lafosse il quale, nel puntare lo sguardo cinematografico verso il privato dell’ambito famigliare, ha creato un’autentica poetica personale.
Stavolta, con Un silence, alza decisamente il tiro, mettendo in scena una vicenda a dir poco complessa. François Schaar (Daniel Auteuil, di sicuro coraggioso nell’accettare il ruolo) è un celebre avvocato penalista. Incaricato di rappresentare una famiglia i cui figli piccoli sono stati rapiti ed uccisi dopo essere stati coinvolti in una tratta di minori. Ma nasconde anche un terribile segreto personale, del quale i due figli e soprattutto sua moglie Astrid (Emmanuelle Devos, sempre intensa) sono al corrente. Ed è proprio il titolo del film, Un silence, ad esplicitare il dilemma morale che coinvolge la donna: proteggere con il silenzio l’apparente unità della famiglia oppure denunciare alla giustizia tutto ciò di cui è a conoscenza rispetto alle attività del marito? Le cose cambieranno bruscamente allorquando anche il figlio minore finirà in qualche modo nel mirino della giustizia.
In Un silence – presentato nel concorso Progressive Cinema alla Festa del Cinema di Roma 2023 – Lafosse non ha paura di infrangere il tabù che pochi altri autori, ricordiamo il Todd Solondz dello straordinario Happiness (1998), hanno osato affrontare nella Settima Arte. Rappresentando, la pedofilia, un crimine capace di marchiare a fuoco non solo il soggetto che compie tale empietà ma anche le persone a lui circostanti. Lafosse, come sua abitudine, evita qualsiasi giudizio morale, rifugiandosi in un naturalismo cinematografico certamente debitore dei suoi illustri connazionali, i fratelli Dardenne. Eppure in quest’occasione, si avverte qualche nota stonata nella necessità di sottolineare con ogni metodo possibile l’enormità del crimine. Ne risente il ritmo del lungometraggio, che da introspettivo diventa quasi d’improvviso il suo esatto contrario, come se in pochissimo tempo diegetico si trasformasse in un’opera in cui l’azione frenetica prende il sopravvento rispetto all’analisi psicologica. E se risulta certamente ammirevole il tentativo di scandagliare il dramma personale vissuto da Astrid, nondimeno pare abbastanza improbabile che la donna non abbia mai preso una posizione netta, a maggior ragione per la salvaguardia dei figli.
L’assenza di una posizione morale di fondo toglie purtroppo peso ed empatia a Un silence, che nel proprio evolversi diventa più simile ad un format di stampo para-televisivo nel quale è impossibile recuperare qualsiasi traccia di giustizia. Scelta autoriale, quella dell’ambiguità a tutti i costi, che Lafosse finisce con il pagare chiaramente, trascinando nel gorgo dell’incertezza anche ottimi interpreti come i già menzionati Auteuil e Devos, con il primo a recitare sin troppo sopra le righe e la seconda dall’espressione perennemente interdetta.
Prendiamo questo Un silence come il primo mezzo passo falso di un regista altrimenti ottimo nell’analizzare e mettere a nudo i rapporti interpersonali, come già felicemente accaduto in opere quali Proprietà privata (2006) e Dopo l’amore (2016). Di questa sua ultima fatica restano intatte le buone intenzioni, mentre il risultato finale suscita più di qualche perplessità a causa degli squilibri intrinseci appena rimarcati.
Daniele De Angelis