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Kripton

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VOTO: 8,5

Alieni in famiglia

Tra le visioni più terrificanti (per l’indiscutibile capacità di turbare) ma al contempo più intense ed emotivamente coinvolgenti di questa Festa del Cinema di Roma 2023, da poco conclusasi, vi è stata senz’altro quella di Kripton. L’autore, Francesco Munzi, pur non essendo particolarmente prolifico è regista che stimiamo ormai da diversi anni; in primis per quei lungometraggi di finzione, su tutti il folgorante esordio Saimir (2004) e il più recente Anime nere (2014), in grado di scandagliare comparti dell’immaginario collettivo non così facili da affrontare, con una spiccata sensibilità personale e senza mai rinunciare a qualche sferzata urticante, tagliante. Nel mentre il regista si è dedicato anche al cinema documentario, confessiamo però d’averlo seguito meno in tale ricerca. Forse è anche per questo che Kripton non si è limitato a sorprenderci in positivo ma ci ha colpito come un pugno allo stomaco.

Il documentario di Munzi, inserito tra gli Special Screenings del festival, porta avanti con notevole tatto ma senza mai limare le asperità del racconto un progressivo avvicinamento alla storie di alcuni ragazzi, in cura presso due strutture psichiatriche della capitale. L’obiettivo della macchina da presa è puntato su di loro. Come pure, idealmente, su quelle loro tare psichiche che sono fonte continua di angosce esistenziali, incapacità di relazionarsi agli altri, dispute in famiglia, limitazioni laceranti nella sfera affettiva e nella ricerca di un lavoro. Però per quanto vibrante possa essere non vi è soltanto questo nel film. Dallo sfondo emergono infatti, per essere messe a fuoco con attenzione pressoché inedita, altre relazioni importanti, da quelle spesso sofferte coi genitori (naturali o adottivi), i fratelli o altri parenti, fino a quelle con istitutori e operatori sanitari, ritratte qui con un’umanità raramente riscontrata altrove.
Se il primo merito dell’autore è indubbiamente quello di essersi accostato a certe storie in maniera tale da ottenere la massima confidenza e fiducia da parte dei protagonisti, tutto il resto è un capolavoro di regia, di montaggio, in ultima analisi di sguardo. L’alternanza di primi piani e campi medi, che sfruttano magari la profondità di campo per approfondire il rapporto tra i ragazzi e coloro con cui di volta in volta si relazionano, è in tal senso il primo dato visibile che salta positivamente all’occhio. Qualsiasi altro accorgimento registico non appare mai fine a se stesso ma perfettamente integrato in una partitura, che intende portarci realmente a contatto coi dilemmi, con le problematiche e con le aspettative di vita di quegli adolescenti. Compresa la loro “alienità”, nel bene e nel male, rispetto alla dimensione quotidiana da noialtri sperimentata, fattore esemplificato bene dai riferimenti immaginifici di uno dei protagonisti all’universo supereroico del pianeta Krypton (da cui il titolo) e di Superman.

Non si può poi negare che il film di Munzi abbia una neanche troppo sottile valenza politica. In parte perché senza mai oltrepassare la “giusta distanza” dai protagonisti riesce a scolpire quei momenti, dall’incidenza dei quali l’occhio e l’orecchio attento degli spettatori più empatici possono percepire ulteriori fonti di disagio, celate nelle ipocrisie e nelle adempienze dell’ambiente famigliare, del sistema educativo e degli interventi istituzionali. In parte perché, fa fede qui il peso enorme delle didascalie poste verso la fine, una velata denuncia del vertiginoso peggioramento della condizione psichica di tanti italiani, soprattutto giovani, dopo la disastrosa gestione della “pandemia” da parte delle autorità, non può che destare ulteriore inquietudine.

Stefano Coccia

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