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Infinity Pool

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VOTO: 5

Sangue del suo sangue

Se di cognome fai Cronenberg e tuo padre si chiama David, allora significa che sei il figlio di uno dei registi ancora in attività più celebrati e rispettati al mondo, autore di pellicole entrate nella storia della Settima Arte e divenute dei veri e propri cult. Si tratta di un’eredità artistica piuttosto scomoda per chi è stato chiamato a raccoglierla. È il caso di Brandon Cronenberg, secondo genito del cineasta canadese che, come la sorella minore Caitlin, ha voluto seguire le orme paterne scegliendo la carriera regista. Nel caso del quarantatreenne di Toronto il buon sangue purtroppo ancora non mente, con la strada da percorrere che si dimostra più lunga del previsto dati i risultati piuttosto altalenante sin qui ottenuti. Se l’esordio Antiviral aveva convinto solo a metà, la seconda prova dal titolo Possessor ha mostrato dei passi in avanti, mentre la terza battezzata Infinity Pool, proposta di recente nel fuori concorso della quinta edizione di Oltre lo specchio Film Festival dopo i passaggi alla Berlinale e al Sundance, ha registrato una battuta d’arresto nel processo di crescita. Viene da sé che le aspettative nei confronti di questa nuova fatica dietro la macchina da presa era giocoforza alta, ma suo e nostro malgrado il risultato le ha ampiamente disattese.
Il film vede protagonista James, autore di un romanzo di scarso successo, che si reca insieme alla moglie Em in un lussuoso resort dell’immaginario paese di Li Tolqa. Lo scopo di James, insoddisfatto dal suo ultimo lavoro e dalla sua vita, è quello di trovare l’ispirazione per la stesura di un nuovo libro. Tutto cambierà quando James ed Em fanno la conoscenza di Gabi e suo marito Alban, che convincono la coppia a recarsi in una spiaggia fuori dai confini del resort. Al ritorno dalla gita, James, a causa della sua ubriachezza, investe per sbaglio un ragazzo, e il giorno dopo viene arrestato insieme a sua moglie. La polizia però offre a James una via d’uscita: in cambio di una cauzione, lo cloneranno e gli permetteranno di assistere all’esecuzione del suo doppelgänger.
Dunque con Infinity Pool, Brandon Cronenberg mette la propria firma su un’opera che ha il corpo umano ancora una volta al centro del discorso. Un discorso, questo, che sembra l’ideale e fisiologico proseguimento di quello avviato decenni prima dal padre con le pellicole inscrivibili nel body-horror. Brandon ha deciso, saggiamente aggiungiamo noi, di proseguire sulla stessa linea ma con una poetica e una visione tutta sua. Lo fa trascinando lo spettatore in una spirale di orrore, violenza e perversione psicologica, in cui assistiamo al lento decadimento del protagonista. Il tema portante del racconto è quello dell’identità: l’essere umano viene qui privato di tutto ciò che lo rende tale, una spersonalizzazione che permette a Cronenberg di riflettere sulla morte, sulla disparità tra gerarchie sociali e sulla perdita dei valori nell’epoca della digitalizzazione e di un nuovo edonismo sociale. È un’opera angosciante, visivamente disturbante e a tratti psichedelica, con sequenze viscerali profondamente carnali come quella dell’orgia. Il tutto si tramuta in una discesa nella follia in cui dolore, piacere, orrore e ossessione si intrecciano in maniera fatale, al quale partecipano senza freni inibitori gli attori chiamati in causa, tra cui Alexander Skarsgård e Mia Goth.
Il regista canadese aggredisce continuamente il fruitore con immagini e dinamiche spinte sempre all’estremo e oltre, con il chiaro intento di trasmettere nella maniera più incisiva, diretta e impattante possibile il e i messaggi di fondo. L’esasperazione e la saturazione di ogni singola inquadratura in un crescendo che finisce per straboccare dallo schermo riversandosi sullo spettatore è il modus operandi che guida le scelte stilistiche e veicola i contenuti. Che arrivi o no, a Brandon Cronenberg manca però il controllo di tutto questo, o meglio l’auto-controllo. Ciò determina una perdita frequente della bussola, quel tanto da creare un caos e un deragliamento narrativo, drammaturgico e visivo, con quest’ultimo che appare come uno sfoggio di tecnica fine a se stessa.

Francesco Del Grosso

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