Nazi-pop
Chi ha incastrato Jojo Rabbit? Adolf Hitler, in persona. Perché è proprio il Führer l’amico immaginario del giovanissimo protagonista di questo surreale lungometraggio, destinato con ogni evidenza a diventare un caso, un cult movie, per quanto la critica già negli States abbia cominciato a spaccarsi in opposte fazioni: incorreggibili scettici da un lato, entusiasti dall’altro. Giusto per evitare fraintendimenti è tra questi ultimi che noi di CineClandestino intendiamo posizionarci, tant’è che a breve dedicheremo al regista del film un approfondimento più ampio. Focus strameritato, non soltanto per questo nuovo lavoro o per il precedente Vita da vampiro – What We Do in the Shadows, intorno al quale si era pure creato un certo scalpore, ma perché già da un po’ l’eccentrico Taika Waititi va scavandosi nell’immaginario cinematografico odierno un solco fatto di originalità, umorismo beffardo, stile personalissimo e accattivanti coloriture pop.
Neozelandese, di origini ebraiche da parte materna e di padre Māori, Taika Waititi pare abbia nel mirino il nazionalsocialismo tedesco, quale obiettivo della sua satira, ormai da parecchio tempo. Un po’ come i Blues Brothers avevano nel mirino i famigerati “nazisti dell’Illinois”. Anche se questa curiosa “vocazione” del cineasta proveniente da un altro emisfero era rimasta a livello embrionale, nei film precedenti: in Boy, suo secondo lungometraggio, era confinata a un’estemporanea battuta del padre del protagonista, lesto a dichiarare la propria avversione nei confronti del pensiero nazi. Altrettanto periferico, seppur divertente, il background inerente al Terzo Reich di uno degli strampalati succhiasangue, che agiscono come “normali” coinquilini nel succitato mockumentary Vita da vampiro – What We Do in the Shadows. Ma è proprio in Jojo Rabbit che Waititi (passato nel frattempo per la fruttuosa esperienza di Thor: Ragnarok, sua valida e formativa incursione nell’universo parallelo del blockbuster stelle e strisce) ha potuto dar sfogo a tutta la sua irriverenza, ispirandosi per l’occasione al romanzo pubblicato nel 2004 da Christine Leunens, “Il cielo in gabbia” (Caging Skies).
Il film approda ora nelle sale italiane con un impegnativo biglietto da visita: proprio in questi giorni Jojo Rabbit ha ricevuto sei candidature agli Oscar 2020: Miglior Film, Miglior Attrice Non Protagonista (Scarlett Johansson), Miglior Sceneggiatura Adattata, Miglior Montaggio, Migliori Costumi e Migliori Scenografie. Premesso che Taika Waititi ha l’ulteriore merito di aver regalato a Scarlett Johansson uno dei ruoli più belli, toccanti della sua carriera, ogni altro aspetto artistico e tecnico risulta meritevole di applausi.
Il contesto è quello di una Germania sull’orlo del collasso, al termine della Seconda Guerra Mondiale, coi ragazzini della Hitler-Jugend addestrati in tutta fretta per essere spediti al fronte assieme agli ultimi cittadini tedeschi arruolabili, quelli anziani o precedentemente scartati per problemi di salute. Se la cornice storica è senza alcun dubbio tragica, il tono scelto da Waititi è irresistibilmente parodico, farsesco, sopra le righe. A partire dagli spassosissimi colloqui tra il piccolo Johannes Betzler detto Jojo, bimbo fanatico che aspira a coprirsi di gloria nella Gioventù Hitleriana (seppur collezionando un disastro dietro l’altro), ed un idolo assai pericoloso trasformatosi nell’amico immaginario sempre al suo fianco, per incoraggiarlo o bacchettarne le indecisioni: ovvero il Führer! Il fatto che ad impersonare Hitler sia lo stesso regista, comico non nuovo con quello sguardo buffo e sornione ad apparire nei propri film in qualche bizzarro ruolo, contribuisce a rendere ancora più sapidi tali siparietti.
Azioni riprese al ralenti, panoramiche vorticose (come nel precedente Selvaggi in fuga (Hunt for the Wilderpeople) ed intere sequenze da videoclip, in cui brilla l’appropriatissima colonna sonora dell’italo-americano Michael Giacchino (integrata poi da qualche sorprendente cover in lingua tedesca, su tutte Heroes di David Bowie e I’m A Believer della band statunitense The Monkees), vanno a costituire il fondamento pop di una satira anti-militarista, che nelle fasi dell’addestramento si concede ancora il lusso di apparire ludica, persino demenziale in certe gag, per assumere poi coloriture più livide nella comunque ipertrofica battaglia finale, laddove un come sempre adorabile Sam Rockwell a.k.a. Capitano Klenzendorf ha modo di sfoggiare la sua pittoresca uniforme: qualcosa di fumettistico si insinua anche nelle pieghe più cupe dell’euforica tragicommedia.
Nel mentre il racconto di formazione orchestrato con stile da Taika Waititi ha avuto tutto il tempo di maturare. Con le sue trovate da farsa bellica a misura di infante, Jojo Rabbit finisce col battere sentieri che non distano poi troppo da quelli che Train de vie – Un treno per vivere di Radu Mihăileanu e La vita è bella avevano già percorso. Ma con esiti a nostro avviso più genuini, personali e incisivi, almeno rispetto a un Benigni fin troppo scaltro, accomodante, sia nei confronti del pubblico che della Storia stessa. E con un senso del grottesco che ci ha ricordato anche, complice l’ambientazione, il sottostimato The Ogre diretto nel 1996 da Volker Schlöndorff. Quel legame poi di natura affettiva tra il bimbo tedesco, sempre più incline a scrollarsi di dosso gli atteggiamenti da nazista in erba, ed una ragazzina ebrea desiderosa solo di sopravvivere agli ultimi focolai di barbarie, assume il contorno di una fiaba oscura senza traccia di scorciatoie o artifici retorici, ingegnosa e catartica, capace quindi di scalfire gli orrori del mondo adulto con lampi di libertà e fantasia.
Stefano Coccia