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Jason Bourne

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VOTO: 8

Sotto assedio

Quando un film di genere riesce, oltre a fornire un intrattenimento in versione extra lusso, a farsi specchio del mondo in cui viviamo, il risultato non può che essere del tutto rimarchevole. Di più: se il lungometraggio in questione mette al centro della storia un personaggio di immediata identificazione spettatoriale perché in grado di combattere in solitudine l’ultima e definitiva battaglia per il più elementare dei diritti, cioè l’affermazione della propria esistenza, non appare proprio possibile evitare una pura e gioiosa esaltazione di tale prodotto.
Tutto questo ed altro ancora è Jason Bourne, ultimo – ma la chiosa finale lascerebbe presagire altro da raccontare… – capitolo delle avventure dell’antieroe creato dalla penna di Robert Ludlum ma ormai dotato, cinematograficamente parlando, di vita autonoma. Molto al di là, infatti, della serie di romanzi che lo ha ispirato e visto protagonista, l’estrema intelligenza dimostrata da Paul Greengrass, Matt Damon e l’intera squadra creativa che dal secondo lungometraggio si è posta dietro ad una saga filmica ormai divenuta imprescindibile punto di riferimento cinefilo, risiede proprio nella capacità sopraffina di aggiornare di volta in volta la diegesi ad un’attualità globalizzata in totale evoluzione. Jason Bourne è un’altra opera, ancor più delle tre che l’hanno preceduta, catapultata in una modernità dove le varie location, da un’Atene in tumulto per la crisi economica greca (macrosequenza già meritevole di un ingresso negli annali del cinema d’azione…) ad una Las Vegas teatro della presentazione di una nuova piattaforma informatica – corrotta – ad amplissimo respiro in stile Google, sono tutte in stretta connessione tra loro, medesime facce di una stessa medaglia solo apparentemente lontane ma che ormai da tempo non conoscono confini di alcun tipo. In una chiave di lettura filosofica di Jason Bourne la vertiginosa moltiplicazione delle varie ambientazioni fa apparire il nostro mondo alla stregua di un “non luogo” in cui ogni cosa non accade per caso e tutto può essere oggetto di manipolazione continua. Così il personaggio interpretato da Matt Damon si trova costantemente a combattere una duplice battaglia: contro quei poteri forti (C.I.A.) che ambiscono alla sua eliminazione fisica e soprattutto una disperata ricerca di verità nei riguardi di se stesso, del proprio passato e dei contorni quanto più possibili definiti del background che lo ha condotto sino a quel punto. Ovvero ad essere una sorta di fantasma il quale, paradossalmente ma fino ad un certo punto, è costretto a rendersi presenza invisibile per riaffermare definitivamente la propria identità. Cosa che, finalmente, avverrà.
Non il solo spunto degno di nota di un action-thriller (in teoria) assieme adrenalinico nonché stracarico di inusitate valenze socio-politiche, che infligge autentiche scudisciate nemmeno troppo metaforiche ad un Potere Universale – statunitense e occidentale, certo; ma ormai è assai difficile operare distinzioni… – che avrebbe la pretesa di controllare, grazie alla tecnologia, il movimento di ogni essere umano in questo mondo globalizzato. E dimostra come tra il vecchio apparato che difende con le unghie e i denti le proprie agghiaccianti prerogative – ottimamente descritto il personaggio del direttore della C.I.A. Robert Dewey, magnificamente interpretato da Tommy Lee Jones – ed il nuovo che avanza – l’ambiziosa sottoposta Heather Lee, cui presta il volto una efficacemente gelida e professionale Alicia Vikander, le differenze sono tanto sottili quanto impalpabili. Una chiarezza di idee, in materia, a dir poco lungimirante, se si ha la pazienza di osservare con attenzione, ad esempio, il presente politico italiano. Discorso comunque valido ad ogni latitudine. Se a tutto ciò aggiungiamo poi un villain d’eccezione come l’asset spietato e senza nome, incaricato dalle alte sfere di “terminare” Jason Bourne, interpretato alla perfezione da Vincent Cassel risulta ancora più chiaro come il grande pericolo latente rappresentato e denunciato con forza nell’ultima fatica di Paul Greengrass (cineasta non da oggi da riconoscere autore a trecentosessanta gradi senza se né ma) sia quello dell’omologazione totale. Che questo possa avvenire attraverso gli ordini dettati da una falsa ideologia o in generale da una tecnologia usata come mezzo di distrazione ed “educazione” di massa è irrilevante; ciò che conta è mantenere la lucidità mentale per combatterla senza quartiere.
Jason Bourne e Nick Hathaway, protagonista di un altro grandissimo film dalla peculiarità concettuali affini come Blackhat di Michael Mann, staranno per sempre lì a dimostrarcelo. Antieroi giocoforza di un Cinema che mette sì in mostra una sbalorditiva costruzione stilistica ma che racconta anche molto, moltissimo d’altro.

Daniele De Angelis

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