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Michael Mann, l’ultimo dei Titani

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Un cineasta, il suo cinema

Ci sarebbe davvero poco da dire o da aggiungere, di fronte ad una carriera come quella condotta sino ad oggi da Michael Mann. Egli dovrebbe rappresentare a tutti gli effetti la classica figura del cineasta totale, di colui che ha “appreso” il mestiere frequentando campi e ruoli assai differenti tra loro, come televisione e produzione. Chiaramente, le cose non stanno così. Poiché un tale percorso lascerebbe presagire un atterraggio più o meno morbido verso i lidi dorati di Hollywood, magari specializzandosi in un genere specifico dove mietere successi, fama e denaro al botteghino. No, la strada che Michael Mann si sta lasciando giorno dopo giorno alla spalle è ben più movimentata, come esplicitato assai bene da una filmografia lunga dieci lungometraggi per il cinema e, tra le altre cose, una serie televisiva che ha fatto storia – chi dice nel bene chi afferma nel male – del calibro di Miami Vice. Una sequela di pellicole con alcuni tratti distintivi sempre molto riconoscibili ma anche sostanzialmente differenti l’una dall’altra. Perché Michael Mann è sempre stato un autore di ricerca, attratto dal piacere della scoperta e da sfide spesso contrarie al gusto popolare corrente; quando non in apparenza del tutto impossibili. Nel cinema inconfondibilmente diretto da Mann l’unico comandamento al quale obbedire senza riserve è stato quello di mettere l’essere umano, declinato in ogni suoi possibile aspetto e sfumatura, prima di ogni cosa. A precedere anche la magistrale costruzione tecnica del proprio cinema, l’azione in senso lato e la finta osservanza nei confronti dei vari generi.
Dieci opere in cui l’emozione scorre purissima, assieme all’adrenalina del thriller o dell’action ed alla consapevole rassegnazione del noir, solo per fare alcuni esempi. Come l’Uomo per Michael Mann ha significato un variegato universo da esplorare con insaziabile curiosità, allo stesso modo vale la pena rileggere il materiale da lui girato per scoprirne nuovi aspetti e trarne altre suggestioni. Del resto, quello firmato da Michael Mann, è un Cinema capace contemporaneamente di appagare – in ordine sparso – sensi, mente e cuore. Non è da tutti. Anzi, a dirla tutta, assolutamente da pochissimi…

Miami. Ma prima Il Ladro e La Fortezza.

Corre l’anno 1981. Michael Mann ha trentotto anni ed alle spalle tanta gavetta (cortometraggi, episodi per serial televisivi) ed un ottimo film anch’esso girato per la televisione, The Jericho Mile, su un ergastolano che ambisce a partecipare alle Olimpiadi nei 1500 metri. Appare da subito chiara la sua attrazione nei confronti dei personaggi in chiaroscuro, lontani da quel manicheismo da sempre imperante nel cinema commerciale, notoriamente composto di buoni, con cui identificarsi, e cattivi, da avversare fieramente. Si gettano le basi per la sua opera d’esordio nel lungometraggio cinematografico, l’affascinante noir Strade violente (The Thief); nel quale film appunto, come suggerisce il titolo originale, il proscenio viene affidato alla figura non esattamente positiva di un ladro di gioielli  – interpretato da un grande James Caan – desideroso di un ultimo colpo per sistemarsi definitivamente dopo aver scontato una condanna ad undici anni di prigione. Le cose, ovviamente, non andranno così lisce…
Accompagnato da uno stile di regia iperrealista da videoclip in confezione extra-lusso quando ancora di videoclip si parlava poco o nulla e da una fascinosa colonna sonora elettronica confezionata dai maestri del settore, i Tangerine Dream, in Strade violente si evidenzia immediatamente il grande umanesimo di Mann, di cui sarà interessante seguire l’evoluzione film dopo film. Nell’opera in questione – come del resto in The Jericho Mile – il regista di Chicago propone figure di personaggi meritevoli di una seconda chance, pur se il loro passato è stato macchiato da errori di gravissima entità. La lotta esistenziale, nel senso letterale e simbolico del termine, ha inizio: tutto il cinema di Mann è incentrato sul conflitto tra il singolo individuo ed un mondo circostante a lui ostile, quando non – e capita assai spesso, in un prodotto di finzione come nella vita reale… – addirittura con se stesso. Facile comprendere come tali difficoltà, a maggior ragione se espresse con un linguaggio cinematografico di ricerca virtuosistica mai vacuo, favoriscano ogni volta, quasi a livello psicoanalitico, il processo identificativo tra personaggio e spettatore, con quest’ultimo che alla fine si trova quasi a vivere in prima persona le vicende a cui assiste sul grande schermo. In questo senso Strade violente riveste un’importanza straordinaria perché si fa anticipatore e rivelatore del cinema manniano a venire; la descrizione cioè di un universo di natura quasi “hobbesiana” dove solo una visione profondamente etica può alla fine fare la differenza, magari raggiunta dopo un faticoso, drammatico percorso narrativo di maturazione.
Tutto questo rende Strade violente un film in assoluto seminale, citato esplicitamente in pellicole contemporanee come ad esempio Drive (2011) di Nicolas Winding Refn, il cui finale è, concettualmente, identico.
Nel 1983 Michael Mann gira La fortezza (The Keep), prima ed unica escursione nel genere fanta-horror della sua filmografia. Ambientato tra le montagne dei Carpazi, durante il secondo conflitto mondiale, La fortezza racconta di un piccolo paese rumeno considerato strategicamente importante dall’esercito nazista, e perciò occupato. Non sanno, i militari, che proprio nella specie di chiesa che hanno eletto loro base si nasconde una terribile entità. Generalmente si tende a definire The Keep un film di transizione nella carriera di Mann, un’opera in fondo bidimensionale dove il regista si limita a sperimentare – con successo – gli stilemi visivi che gli torneranno utili nel successivo Manhunter; ovvero minuzioso lavoro sulla luce (meravigliosa la fotografia di Alex Thomson, artista che illuminò stupendamente anche Excalibur di John Boorman) e con un ritmo di montaggio che lavora sul senso di attesa e sul non visto, pur se gli effetti speciali – usati con parsimonia – risultano assolutamente efficaci. In realtà il film, come consuetudine nel cinema di Mann, prende anche una decisa posizione “morale”, lasciando sottintendere che al male assoluto rappresentato fisicamente dalla follia nazista ne può esistere un altro, di tipo trascendente, dai contorni quantomai ambigui. Ed equiparando, implicitamente, la follia politica a quella religiosa, altrettanto pericolosa. Ancora una volta poi, l’anti-manicheismo propugnato da Mann non fa di tutti i nazisti delle belve sanguinarie, operando un ammirevole lavoro di approfondimento anche nella psiche di coloro che potrebbero essere definiti come i cattivi per eccellenza. Anche La fortezza diventa quindi un film dalla decisa valenza etica; un’opera non a caso insolita per il genere – forse un po’ penalizzata da una sceneggiatura, opera dello stesso Mann, discontinua ma capace di incredibili suggestioni – di riferimento, consapevolmente ambigua quando si tratta di porre domande più che di dare risposte. Un film magari imperfetto ma certo “minore” solo in apparenza.
Nel 1984, ideatore “ombra” assieme a quello ufficiale Anthony Yerkovich, per Michael Mann inizia l’epopea di Miami Vice, il serial televisivo che rivoluzionò, in soli sei anni, il modo di concepire il serial televisivo, fornendo ad esso delle coordinate squisitamente cinematografiche senza dimenticare l’aspetto di tendenza, tanto visivo quanto nel contenuto, che rivestì un ruolo determinante nel successo della serie. Ma su Miami Vice in versione piccolo schermo torneremo più avanti nel nostro saggio, allorquando, più di venti anni dopo, il Miami Vice film arriverà come un tornado a ristabilire ordine, tracciare nuovi e definiti confini tra cinema e televisione nonché ad aggiornare con enorme precisione le differenze temporali. Accadde a Miami. E (non) accadrà di nuovo…

Dentro il “Mostro”

Manhunter – Frammenti di un omicidio (Manhunter), girato da Michael Mann nel 1986, rischia di passare alla storia solamente per aver rappresentato la prima apparizione cinematografica di un “certo” Hannibal Lecter, in seguito assurto ad imperitura gloria per l’interpretazione fornita da Anthony Hopkins nel celeberrimo Il silenzio degli innocenti diretto nel 1990 da Jonathan Demme. Tra l’altro nel film di Mann, dove è benissimo caratterizzato dall’ottimo Brian Cox,  il personaggio dello psichiatra cannibale ha curiosamente un cognome differente (Lecktor) ed un ruolo piuttosto marginale, almeno come puro minutaggio di scena, anche se parecchio incisivo a livello narrativo. Il thriller diretto da Mann (e tratto dal romanzo Red Dragon, sempre di Thomas Harris), infatti, concede il proscenio, pur nella sua consueta costruzione estremamente organica, ad un altro personaggio “negativo”, ovvero lo sterminatore di famiglie Francis Dollarhyde, sinistramente soprannominato per intuibili motivi “Dente di fata”, nella circostanza fisicamente e minacciosamente impersonato dal gigantesco – in tutti i sensi – attore Tom Noonan. Dall’altra parte della barricata, a simbolizzare il Bene in lotta contro il Male, dovrebbe esserci il detective Will Graham (un William Petersen alla sua seconda magistrale prova attoriale di una stagione irripetibile, dopo quella offerta in Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin), l’esperto F.B.I incaricato di fermare quei massacri. Ovviamente le cose non stanno in questo modo; poiché Mann – anche sceneggiatore del film – mescola le carte in modo vertiginoso, confondendo i ruoli fino a sovrapporli in un labirintico gioco di specchi che diverrà pratica abituale del suo modo di fare cinema. Due psicologie ferite – Dollarahyde per i suoi atti, che denotano tutto il dramma interiore di una persona “condannata” all’anormalità; Graham per la natura intrinseca del suo lavoro, che lo ha portato in passato anche ad un incontro troppo ravvicinato con Hannibal Lecktor – vengono per certi versi “affratellate” da Mann in nome di un enorme,  non quantificabile, male di vivere. Con il cacciatore che diventa preda e viceversa, in una descrizione a trecentosessanta gradi di entrambi i personaggi (l’uno il doppio dell’altro?) che può concludersi solo con l’annientamento di uno dei due. Peraltro non senza che il sopravvissuto paghi un conto assai salato in termini di equilibrio mentale. E sicuramente Mann ha girato un film, assolutamente rivoluzionario secondo moltissimi punti di vista, che porta lo spettatore ad identificarsi molto più con la figura del maniaco piuttosto che con quella dell’uomo che difende, sia pure con molta difficoltà, la sua visione etica del mondo. Non è un caso, allora, se Manhunter si risolse in un fiasco commerciale che portò addirittura il produttore Dino De Laurentiis – allorquando nel 2002 ricavò dallo stesso romanzo di Harris un secondo film, Red Dragon di Brett Ratner – a disconoscere la paternità produttiva del film di Mann. Destinato all’insuccesso a causa del suo essere straordinariamente sperimentale sia nella forma, tutta tesa a riprodurre in maniera quanto più possibile stilizzata ed astratta pensieri ed emozioni dei personaggi in campo, che soprattutto nella sostanza.
Manhunter, al contrario del già citato ed eccellente Il silenzio degli innocenti, non è una full-immersion alle radici estreme del thriller; bensì un viaggio quasi senza fine alle frontiere inesplorate di ciò che può celarsi dietro qualsiasi patina di normalità. Umanista solidale ed allo stesso tempo pessimista radicale come solo lo sguardo di Michael Mann riesce ad essere…

Un’avventura classico-moderna

Ben sei anni dopo Manhunter – con l’intervallo di L.A. Takedown nel 1989, film televisivo di cui parleremo in seguito – Michael Mann realizza nel 1992 il suo quarto lungometraggio, L’ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans), una sorta di western ante-litteram ambientato nella seconda metà del Settecento, all’epoca del conflitto coloniale franco-britannico nel Nuovo Mondo.
Ribaltando il punto di vista – e non solo quello – del romanzo ottocentesco di James Fenimore Cooper, Mann fa de L’ultimo dei Mohicani una pellicola classicheggiante a livello di stile ma, a prosecuzione del suo incessante lavoro di rielaborazione dei vari generi, innervata di pulsioni assai “moderne”, estremizzando sottotesti narrativi tipicamente politici quali lo spirito di indipendenza indiano, l’importanza del libero arbitrio in tempi dove regna la follia della guerra ma soprattutto esaltando la componente romantica – nella storia d’amore tra il protagonista Hawkeye (splendidamente interpretato da un Daniel Day-Lewis al massimo del fulgore fisico), un bianco adottato dal capo Mohicano Chingachcook, e la bella Cora Munro (una Madeleine Stowe al contempo dolce e combattiva), figlia di un generale britannico – in maniera decisamente insolita per un film che avrebbe potuto essere interpretato con facilità solo come un omaggio al cinema che fu. Il risultato è quindi una continua alternanza di azione, tragedia e amore, miscellanea che rende L’ultimo dei Mohicani un’opera dalla statura epica nel senso meno “antico” del termine, pur se la ricostruzione filologica dell’epoca effettuata da Mann risulta alla fine persino al di là della consueta perfezione.
Per molti versi quindi L’ultimo dei Mohicani è un altro film rivelatore della poetica manniana, quella cioè di un cineasta perfettamente in grado di mettere il suo enorme bagaglio tecnico al servizio di una storia da interpretare sempre in modi differenti, ma avente come prerogativa quella di far risaltare un tipo di umanesimo autoriale del tutto particolare; perché Mann non giudica mai aprioristicamente i suoi personaggi, non li inserisce nelle stantie categorie dei “buoni versus cattivi” ma anzi lascia libero lo spettatore di comprendere fino a che punto la natura umana riesca ad essere soggettivamente variegata. Prendiamo ad esempio di tale discorso la caratterizzazione di scrittura del personaggio di Magua (interpretato dall’attore Wes Studi), forse quello dai connotati maggiormente negativi dell’intera filmografia di Mann. Ebbene quale altro autore avrebbe dato una motivazione – e nemmeno una da poco, visto che si parla dello sterminio della sua intera famiglia – alla sete di vendetta che porta Magua ad una ricerca così ossessiva della violenza? Non certo nel cinema di pronto consumo, a prescindere dal differente periodo di realizzazione. Per questi e tutta una serie di altri motivi L’ultimo dei Mohicani resta a tutt’oggi un film che non mostra il minimo segno di usura da parte del tempo. Come del resto tutti gli altri diretti da Michael Mann.

Il sottile fascino della grandezza: quando i Miti si incontrano

Lo straordinario Heat-La sfida (Heat), girato da Mann nel 1995, ha sempre corso il rischio di venir ricordato per il motivo più scontato, ovvero per essere stato il primo incontro cinematografico  tra due attori del calibro di Robert De Niro ed Al Pacino. I quali certamente nobilitano il film con un interpretazione magistrale, con il primo impegnato in una memorabile performance a simulare totale controllo di emozioni e sentimenti ed il secondo ad esprimere perfettamente tutte le nevrosi di una esistenza molto poco gestibile; ma che si trovano anche di fronte a due personaggi magnificamente strutturati già in sede di sceneggiatura. Uno script che parte in verità da un po’ più lontano, essendo Heat una sorta di remake – riveduto, corretto ed “ampliato” – del film televisivo L.A. Takedown, scritto e diretto sempre da Mann sei anni prima. La storia di Heat prende le mosse da lì, dalla figura del poliziotto Vincent Hanna, della sua solitudine nella lotta ad un criminalità dilagante simbolo di un degrado sociale ormai fuori controllo. Come sempre, nel cinema di Mann, ogni esistenza solitaria lo è relativamente: poiché, magari su un altro fronte ideale, ci sarà sempre un individuo affine, un avversario da combattere ma comunque da osservare e studiare a fondo, fino a stimarlo. Ecco dunque il salto di qualità della sovrapposizione metaforica tra personaggi diversi così tipica nel cinema di Mann; dalla necessità con conseguente repulsione a riconoscere se stessi in un altro individuo “anormale” (Manhunter) alla “sorpresa” di trovare fattori di comunanza con chi ha fatto dell’illegalità una scelta di vita. Del resto Heat avrebbe potuto benissimo essere il “solito” noir-poliziesco con tanta azione, sparatorie unite da una caccia spietata tra guardia e ladri a fare da collante narrativo; è diventato invece un racconto di enorme spessore etico, filosofico e morale sull’impossibilità di non rimanere in eterno prigionieri della propria immagine, di una sorte che ci si è costruiti giorno dopo giorno quasi senza accorgersene. Vincent Hanna (Al Pacino, il “buono”) e Neil MCCauley (Robert De Niro, il “cattivo”), a prescindere dalla enormità delle loro azioni, scendono così dal piedistallo del cinema per divenire persone comuni, con le quali è assai più facile identificarsi e lasciarsi coinvolgere anche da semplici spettatori. Agevolati in ciò dalla struttura clamorosamente ramificata di un capolavoro come Heat, dove ogni personaggio – anche secondario – ha una propria descrizione a tutto tondo, una sua storia da vivere febbrilmente e amori indelebili da consumare in fretta per differenze inconciliabili ed eccesso di passione, come capita alla coppia interpretata da Val Kilmer ed Ashley Judd, la cui sequenza di addio resta una delle pagine di cinema più belle e struggenti scritte da quel pessimista perdutamente “ammalato” di romanticismo che risponde al nome di Michael Mann. In un modello di cinema dove l’azione, in qualunque campo essa si svolga, trova di continuo nuove strade per esprimersi…

All’assalto del Sistema

Da un fatto realmente accaduto, metafora del Davide che abbatte Golia, scaturisce il film di Michael Mann in apparenza maggiormente impegnato sia da un punto di vista politico che morale. Parliamo ovviamente di Insider – Dietro la verità (The Insider), che il cineasta di Chicago, come sempre molto rigoroso nella ricerca documentale dei suoi films, gira quattro anni dopo (1999) l’ottima riuscita di Heat. Ma come consuetudine il cinema di Mann cela abilmente un “doppio fondo”: sotto la superficie del fatto di cronaca – la denuncia da parte di un dirigente della multinazionale del tabacco per cui lavorava, accusati di immettere nelle sigarette sostanze che causano dipendenza dalla nicotina – infatti emerge con prepotenza il coraggio dei singoli individui, con annesso tormento personale di fare eticamente la scelta più giusta di fronte ad una società malata e corrotta dove l’interesse primario, ora come allora, sembra essere solo il dio denaro.
Protagonisti della vicenda sono un invecchiato per esigenze di copione Russell Crowe (l’insider del titolo, lo scienziato Jeffrey Wigand), davvero magnifico nel recitare in trattenuta un ruolo che lo vede accerchiato sia fisicamente che metaforicamente, ed un magistrale, vulcanico Al Pacino – alla sua seconda consecutiva collaborazione con Mann dopo Heat  – nei panni del giornalista televisivo Lowell Bergman, idealista solitario in un mondo che a tutti i costi vorrebbe farlo fuori. Insider, in fondo, è la storia del rapporto tra questi due uomini veri, sorta di eroi tardo-romantici che ancora credono nella natura del loro lavoro e non nei numeri del  proprio conto in banca, più che un’opera di denuncia sulle malefatte del capitalismo sfrenato, quantomai attuale anche a dieci anni abbondanti di distanza. Ed alla fine Mann – anche sceneggiatore assieme ad Eric Roth – racconta, con la usuale larghezza di vedute, una vicenda di sofferenza e dolori, vittorie e sconfitte, ideali traditi o mantenuti a forza ed amicizie sacrificate sull’altare del Potere e la ragnatela continua che esso tesse. Insider è il prototipo del thriller umanista a tutto tondo; teso e spettacolare ma con una capacità di introspezione nei personaggi difficilmente riscontrabile in qualsiasi altra pellicola di genere pure di chiara matrice autoriale, pensiamo ad esempio a L’uomo della pioggia di Francis Ford Coppola.
Uomini, quelli di Insider che vinceranno a prezzo di gravissime perdite morali. Perché la vita non è un film ed il Cinema di Mann “osa” guardarla dritto negli occhi: anche a costo di farsi molto male…

Man of The People

Nel 2001 – negli Stati Uniti feriti gravemente dal noto attentato terroristico – Michael Mann realizza appena prima un biopic su uno dei personaggi più controversi della storia del paese, un uomo che ha travalicato l’ambito sportivo per approdare direttamente all’alveo cultural-mitologico a stelle e strisce. Perché dunque dirigere un film su Muhammad Alì, il pugile che più di ogni altro ha scatenato la fantasia dell’appassionato ma che ha pure diviso l’opinione pubblica americana con le sue prese di posizione giudicate anti-patriottiche contro il conflitto in Vietnam, che peraltro costarono allo stesso Alì diversi anni di carcere per renitenza alla leva? La risposta è molto più semplice di quanto si possa pensare. Michael Mann, grande appassionato di boxe e praticamente coetaneo del campione, ha vissuto in prima persona tutte le fasi del Mito, comprese le vertiginose cadute e le iperboliche “resurrezioni”; ma soprattutto ne ha condiviso l’appartenenza a quella controcultura che spronava alla lotta senza quartiere contro l’establishment, alla ribellione individuale sovente – come si è visto – pagata a caro prezzo. Del resto Muhammad Alì incarna alla perfezione il prototipo del personaggio tipo del cinema di Mann: l'(anti)eroe solitario spesso deputato ad un destino amaro anche quando, raramente, ottiene ciò che vuole. Un’ulteriore testimonianza di quanto la poetica manniana si alimenti con la realtà circostante, della sua sincerità del tutto scevra da compromessi commerciali. Ed infatti, anche in virtù delle premesse appena enunciate, Alì non fu un gran successo al botteghino statunitense, restando però un’opera memorabile che riesce a catturare l’essenza del Mito, proprio laddove il Mito stesso è divenuto tale. Ci riferiamo ovviamente al celeberrimo incontro che oppose – il 30 Ottobre 1974 a Kinshasa, nel cuore dell’Africa Nera – Alì al campione in carica George Foreman, un’impressionante massa di muscoli che pareva davvero imbattibile. E Michael Mann porta a compimento cinematografico un’impresa difficile almeno al pari di quella di Alì; riuscire cioè a rendere percepibile sia a livello visuale che puramente emozionale, perdipiù con il consueto stile registico magnificamente innovativo e filologicamente perfetto con magistrali sequenze di combattimento che sembra di “vivere” sul ring in primissima persona, le motivazioni “anteriori” che hanno reso possibile l’ennesima vittoria di un underdog contro un vincitore annunciato: quella forza, assieme palese ma sempre misteriosa, che il tifo della sua gente ha trasmesso al proprio “fratello” americano, opposto all’afroamericano integrato nel sistema (Foreman) che ha implicitamente rinnegato le radici di appartenenza. Questo – e non altro, suggerisce il film – ha deciso le sorti del leggendario “The Rumble in the Jungle”, dal soprannome che venne dato al match.
E se non fosse ancora chiaro tutto ciò basta ammirare l’ultimissima inquadratura di Alì, una delle più belle ed emozionanti dell’intera filmografia di Mann: un campo medio-lungo dove la figura di Alì, esultante a bordo ring, è completamente decentrata, laterale, rispetto alla folla giubilante per una vittoria che era stata – anche e forse soprattutto – la loro.
Da dove viene la forza, quella capace di rendere possibile il raggiungimento di ogni obiettivo? Alì ci concede l’emozione purissima di una risposta.

Era notte a Los Angeles

Una metropoli sterminata, notturna e minacciosa  magnificamente messa a fuoco da una realizzazione in digitale usata, tra l’altro per la prima volta in modo così totale, al meglio. Due individui in apparenza lontanissimi tra loro – uno spietato, ultra-professionale killer prezzolato caucasico ed un tassista afroamericano con tanti sogni nel cassetto – che s’incontrano, dialogano, si combattono, finiscono con lo scambiarsi i ruoli sino ad una inevitabile conclusione da “mors tua vita mea”.
L’opera numero otto firmata da Michael Mann, intitolata in modo più che appropriato Collateral (2004), è contemporaneamente cristallina nel seguire lo svolgersi della propria trama thriller ma anche filosofica in chiave oltremodo sfaccettata per le istanze “interiori” che offre, riflettendo in maniera ben più che autoriale sulla natura intrinseca dell’essere umano, dei suoi infiniti lati positivi e negativi spesso così mescolati tra loro da risultare perfettamente indistinguibili. Del resto è in tutti i sensi buio a Los Angeles – e Collateral si sviluppa narrativamente, in perfetta unità di tempo e luogo, tutto nell’arco di una lunga notte – e può anche capitare di incrociare un branco di coyotes lungo una superstrada in una sequenza incredibilmente suggestiva del film, autentico zenit di una poetica manniana che talvolta, come in questo caso, accosta le censurabili esigenze primarie dell’uomo a quelle più giustificabili degli animali.
Collateral è dunque un film che corre, letteralmente e vertiginosamente, su un doppio binario. C’è l’azione fisica, abbondante, survoltata e girata come solo chi si compenetra totalmente in ciò che racconta può essere in grado di fare, con inseguimenti, sparatorie e metaforiche strade lastricate di vittime non sempre del tutto innocenti; ma c’è anche l’azione morale, ad esempio quella che porta l’umile tassista Jamie Foxx a rischiare il tutto per tutto per provare a salvare la vita della donna poche ore prima conosciuta, un magistrato finito nella lista delle persone da eliminare dell’amorale sicario Tom Cruise. In Collateral – tra l’altro l’unico film girato da Mann in cui egli non risulta ufficialmente accreditato in alcun modo nella stesura del copione – forse più che in ogni altra pellicola da lui diretta traspare tutta la visione totalmente pessimistica dell’autore di Chicago, una deriva sociale ed esistenziale alla quale pare ormai davvero difficile mettere un freno, tanto sembra il processo irreversibile; solo il singolo è in grado di lottare, di opporsi a questo stato di cose sino all’ultima stilla di energia o respiro di vita; e noi spettatori a quell’albero divelto ci aggrappiamo, per sperare che il fiume in piena non ci travolga. Senza sapere, poi, se Collateral finisca bene, come potrebbe apparire a prima vista, o male, in un finale del tutto coerente con ciò che il film aveva raccontato – e sottilmente insinuato nell’animo del pubblico – sino a quel punto.
Collateral è un film di genere (generi) da manuale.

Ritorno a casa

Miami senza più “vizi” da ostentare. Cupa e quasi senza speranza, con una organizzatissima criminalità internazionale che dilaga nel suo seno. Ed il buio della notte, il cielo che lampeggia e rimbomba di minacciosi tuoni quasi a presagire un redde rationem imminente. All’interno dell’essere umano c’è poi l’attrazione incontrollabile, quella che arriva al primo sguardo ed è impossibile resisterle;  ma pure l’amore sincero e profondo, capace di prevalere persino sulla minaccia portatagli dalla morte. A Miami ora si combattono guerre, interiori ed esteriori. Non si sfoggiano più macchine di lusso, abbaglianti completi bianchi in giornate assolate: dalla televisione anni ottanta si è passati ad un Cinema virato al nero e proiettato nel cuore del nuovo Millennio.
Nel 2006 Michael Mann torna al passato per ridisegnarne i contorni e scaraventarlo, letteralmente, nel futuro più remoto. Girando la versione cinematografica di Miami Vice.
Ma del celeberrimo serial televisivo – peraltro, come accennato in precedenza, il primo a fornire un prodotto televisivo di una organicità strutturale e narrativa completamente sconosciuta, prima di allora, al piccolo schermo – Mann mantiene solo i nomi della coppia di poliziotti protagonisti, l’afroamericano Ricardo Tubbs (un Jamie Foxx ormai alla terza collaborazione con Mann), ed il bianco Sonny Crockett (un istintivo Colin Farrell); mutando radicalmente tutto il resto. Via dunque tutto il glamour di una serie televisiva capace di fare tendenza in ogni senso immaginabile; su Miami, come scritto, cala il buio di umanità che ha smarrito una qualsiasi giusta direzione, che per scelta va a morire sfracellandosi lungo un’anonima superstrada oppure si concede qualche giorno di tenera passione a Cuba, sorta di enclave utopica dove un breve intermezzo è ancora possibile. Ma poi è sempre il dovere a chiamare, che sia quello della lotta alla criminalità o l’altro, maledettamente vicino (l’azione sotto copertura degli agenti  Crockett e Tubbs), che alla stessa deve portare soldi, soldi ed ancora soldi.
Miami Vice è una storia di vicinanze, collusioni, tradimenti del cuore e del denaro. Michael Mann gira – in un digitale che prorompe con inaudita forza e solidale empatia nell’essenza di ogni personaggio descritto – un’opera che dietro la struttura noir-poliziesca racchiude profonde riflessioni esistenziali e politiche. La contiguità estrema tra capitalismo deteriore ed una illegalità che è diventata vera e propria impresa d’affari; ma pure il richiamo istintivo e primordiale della vita, l’impossibilità assoluta di resistere al cuore che pulsa.
E si arriva così, parlando di scintille romantiche, come per inerzia a Gong Li nel ruolo di Isabella, sino-cubana prima compagna di vita e braccio destro del boss Montoya, poi amante inconsapevole dell’agente speciale Sonny Crockett. Chi giudica il cinema di Mann troppo virile perché sempre incentrato su figure maschili osservi bene quali personaggi fungano da motore delle sue storie. La non vedente Reba McClane (Joan Allen) di Manhunter; la Cora Munro (Madeleine Stowe) de L’ultimo dei Mohicani; per arrivare alla Billie Frechette interpretata da Marion Cotillard nell’ultimo, meraviglioso, Nemico pubblico, purissimo simbolo di amore la cui fiamma non potrà mai spegnersi. Ed infatti, concludendo, Miami Vice è anche un cristallino melodramma in formato extra-lusso abilmente mascherato da crime-action-movie. Tantissimo cinema in un solo film. Forse troppo. Ormai non ci eravamo, da tempo, più abituati…

The Last Gangster

John Dillinger non era propriamente un gangster tipico. Non poteva essere nemmeno un eroe, come qualcuno negli anni Trenta lo descrisse. Però era certamente un ribelle verso lo status quo, nel periodo in cui la Grande Depressione mordeva la carne viva di grandissima parte della popolazione americana. Un uomo di confine in un West non solo metaforico che lottava, adottando mezzi palesemente al di fuori della legalità, per il raggiungimento dei propri sogni. Questo, oltre all’immedesimazione in un personaggio certamente appartenente appieno a quello che potremmo definire una sorta di “controcultura” dell’epoca, deve aver colpito in maniera così decisa Michael Mann, da convincerlo a girare il secondo biopic (dopo Alì) della sua carriera registica: Dillinger, più o meno inconsapevolmente, è stato un uomo che ha vissuto in prima persona un periodo storico di enorme transizione; che ha attraversato, volente o nolente, la realtà per trasfigurarsi direttamente tra i fotogrammi di quella Settima Arte agli albori che lui stesso amava alla follia.
Nemico pubblico (Public Enemies, 2009) è un film, tra le altre cose, sul cinema, sulla possibilità di identificazione – allora come ora – in quello specchio che proietta immagini, ricreando in modo filologicamente perfetto un preciso contesto storico ma al contempo filtrandolo attraverso quella magnificenza di cui solamente il grandissimo Cinema può essere capace. Ed infatti diversi momenti di Nemico pubblico ricordano molto da vicino la prima parte di The Aviator (2004) di Martin Scorsese, di cui Mann fu non a caso produttore, con i vari gangsters o agenti federali presentati come divi del cinema d’antan – e Baby Face Nelson (l’attore Stephen Graham) in una sequenza afferma scherzosamente, per far colpo su una piacente ragazza tenuta in ostaggio a seguito di una rapina in banca, di essere uno scopritore di nuovi talenti per il grande schermo – in un perfetto meccanismo spettacolare capace di creare un sottile senso di straniamento nello spettatore, sospeso tra aderentissima ricostruzione storica e trascendenza artistica da sogno cinematografico. Anche se poi, fatto che rappresenta da sempre una costante immutabile nel cinema di Michael Mann, arriva quasi d’improvviso il vero dolore a ristabilire l’autentico senso delle proporzioni tra vita vissuta e voli pindarici nei cieli dell’affabulazione artistica. Prerogativa questa che rende Michael Mann un cineasta “di frontiera” davvero unico al mondo, capace di frequentare i territori della grossa produzione solo per rimodellare a proprio piacimento i contorni della macchina-Cinema, come fosse divenuta pura creta nelle sue mani.
Potremmo definire Michael Mann come l’ultimo dei Titani, un  autore ancora appartenente a quella gloriosa stirpe – i nomi li faccia il lettore come meglio gli aggrada –  che, rischiando in proprio, sovrapponeva con precisione millimetrica il Cinema alla grandezza, positiva o negativa che fosse, della propria visione del mondo; una “famiglia” purtroppo in via di estinzione, ora che Hollywood è sempre più irresistibilmente attratta dalla programmatica ludicità di un cinema-giocattolo da sicura resa al botteghino.
Da preservare con la massima cura, uno come Michael Mann. Con tutto il suo cinema che ci porteremo dietro, dovunque si vada.

Daniele De Angelis

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