Meglio sola che male accompagnata
Se per il pregevole The Myth of the American Sleepover si rifaceva ai fasti del coming-of-age più classico alla American Graffiti, per il ritorno dietro la macchina da presa David Robert Mitchell rende un personalissimo omaggio all’horror vecchia scuola e ad alcuni suoi illustri esponenti, lasciandosi guidare tanto nella scrittura quanto nella messa in quadro e nella messa in scena. Per It Follows, presentato all’ultima Semaine de la critique di Cannes e nella sezione After Hours della 32esima edizione del Torino Film Festival, il regista statunitense rivolge lo sguardo al cinema di Carpenter e Craven, ma anche a quello made in Italy di Argento (Suspiria) e Crispino (Macchie Solari). Ne scaturisce un gioco di rimandi e citazioni più o meno evidenti che fanno da tappeto drammaturgico allo script, nel quale trovano ampio spazio anche influenze altrettanto evidenti del J-Horror, del teen-horror di nuova generazione e di pellicole più recenti come Il tocco del male, The Others o Il sesto senso. Il tutto si fonde per poi confluire in un film d’impatto che fa leva sui temi e gli stilemi imprescindibili del genere d’appartenenza, arricchiti da spunti narrativi e soluzioni visive estratti dal proprio cilindro (l’effetto steadycam sulla sedia a rotelle, le riprese subacquee nella piscina o il 360° nel corridoio del college).
Mitchell ambienta ancora una volta una storia in quel di Detroit. Qui la per la diciannovenne Jay l’arrivo dell’autunno annuncia una stagione di scuola, ragazzi e week-end in riva al lago. Ma dopo un rapporto sessuale all’apparenza normale, si trova terrorizzata da strane visioni e dall’inestricabile impressione che qualcuno, o qualche cosa, la segua. Per fronteggiare questa maledizione Jay e i suoi amici dovranno trovare una scappatoia agli orrori che non sembrano mai allontanarsi da loro.
Sinossi alla mano è facile ridurre il racconto al solito plot che vede protagonista un gruppo di adolescenti alle prese con eventi e morti inspiegabili che lasciano dietro di sé una scia di sangue, morte e sofferenza. Pensarlo non è sbagliato, ma il regista americano rincara la dose proiettando sullo schermo le angosce, le psicosi e le fobie di ieri e di oggi, oltre alla paura e il rischio sempre dietro l’angolo di un possibile contagio (in questo caso l’HIV). L’operazione sfugge così dai tentacoli della mediocrità per ritagliarsi uno spazio di riguardo nel già visto. L’originalità non è dunque il piatto forte, bensì il modo in cui Mitchell riesce, salvo qualche leggerezza disseminata qua e là nella timeline, a tenere insieme tutti gli elementi a disposizione, evitando che gli uni fagocitino gli altri. Per farlo mescola senza soluzione di continuità le diverse sfumature dell’horror e del thriller, passando attraverso lo shocker, l’horror psicologico e quello sovrannaturale, oltre ai sottogeneri del filone come la ghost story o lo zombie movie. Queste si intrecciano e coesistono generando a loro volta momenti di suspence latente ed esplosioni di tensione di grande effetto (vedi la scena della spiaggia e l’epilogo in piscina), alternati a passaggi a vuoto per fortuna sporadici.
Ciò che resta è comunque un prodotto dell’orrore ben al di sopra della media dell’ultimo decennio, che ha nella punteggiatura registica di Mitchell e nelle magnetiche sonorità firmate dagli Disasterpeace (più che evidenti le influenze dei Goblin e delle colonne sonore firmate da Carpenter) le chiavi per fare breccia nei cuori degli appassionati, anche quelli più esigenti.
Francesco Del Grosso