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Gemma Bovery

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VOTO: 8

Come in un romanzo… o quasi!

Dal cinema francese, che negli ultimi anni si è trovato a oscillare spesso tra commedie di gusto troppo facile e altre eccessivamente intellettuali, verbose, autoreferenziali, arriva di tanto in tanto qualcosa di realmente brillante, che sa anche emozionare. Alcune delle opere cinematografiche meglio bilanciate tra testa e cuore risultano poi firmate da una donna. Ed è questo il caso del folgorante Gemma Bovery, passato con riscontri lusinghieri a svariati festival tra cui Torino e Toronto.

Anne Fontaine, che ha già sfornato (termine quanto mai appropriato al suo ultimo lavoro) pellicole di successo come Nathalie… (2003) e Coco avant Chanel (2009), ci regala forse qui la sua regia più lieve e ispirata, sostenuta peraltro da un cast ben concepito, nella sua matrice franco-britannica; un insieme di attori convincenti e preparati, accanto ai quali lo sguardo rapito di Fabrice Luchini illumina la scena quasi fosse un faro. Già, Fabrice Luchini. Strepitosa come e più di altre volte la sua prova attoriale, tesa a far risaltare le ambiguità caratteriali di un personaggio ora tenero e ora patetico: ovvero Martin, parigino colto che anni prima ha preferito sottrarsi allo stress della capitale, preferendogli lo stile di vita rilassato e pacifico dell’ameno paesino della Normandia dove è persino tornato a fare il panettiere, come il padre un tempo. Ma l’arrivo di una giovane e apparentemente spensierata coppia britannica è destinato a sconvolgere la sua tranquillità. Sì, perché lei (con in dote il fascino botticelliano ed estremamente sensuale di Gemma Arterton) si chiama Gemma Bovery. Il che, agli occhi dell’annoiato e disilluso intellettuale parigino, non può non far pensare alla Emma Rouault a.k.a. Madame Bovary dell’omonimo romanzo di Flaubert. E se uno si fissa col fatto che gli avvenimenti stiano emulando in profondità la trama di Madame Bovary, allora gli sviluppi del racconto potrebbero realmente avvicinarsi a Madame Bovary, nel bene e nel male…

Giochi di sguardi. Inquadrature furtive della pensierosa bellezza anglofona. Tresche abbozzate senza troppa convinzione. Con il filtro delle fantasie di Martin a movimentare di continuo il plot, l’ironia si dispiega leggera in quel brioso racconto cinematografico che sembra assolvere a un duplice scopo: da un lato far appassionare gli spettatori ai personaggi, lasciando credere per un attimo che siano davvero cloni delle figure già descritte in un capolavoro della letteratura mondiale. Ma certi castelli di carte sono destinati a crollare. E così verranno messe in discussione anche le sicurezze interiori di Martin/Fabrice Luchini, nella cui goffaggine sembra infine rispecchiarsi, a livello metaforico, la fragilità di una cultura francese che fatica a “leggere” e interpretare la realtà. Un autodafé compiuto col sorriso sulle labbra, è quanto ci descrive con arguzia l’ispiratissima Anne Fontaine; fino a un epilogo che, parafrasando l’analogo culto dei grandi romanzieri russi, arriva a raddoppiare, con ludico disincanto, il significato profondo della (tragi)commedia.

Stefano Coccia

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