Paternità (a)morale
Susanne Bier con Second Chance (En chance til, nella versione originale) sembra determinata a continuare una parabola discendente a quanto pare inarrestabile. Dopo una prolifica seppur discutibile parentesi hollywoodiana e un anomalo e melenso (e del tutto trascurabile) intermezzo italiano, la regista (forse alla ricerca della “purezza” delle origini del suo cinema) torna nella sua Danimarca con un thriller intimista raggelante, moraleggiante, irrimediabilmente fallimentare.
Forte dell’interpretazione del connazionale Nicolaj Coster-Waldau (Jamie Lannister in Game of Thrones) la Bier costruisce un dramma durissimo fatto di scelte discutibili e ambiguità morali.
Quando la vita del protagonista, il poliziotto Andreas, padre da pochi mesi, si scontra con quella di una coppia di tossicodipendenti, anch’essi con un figlio piccolo, tutto esploderà in un vortice di disperazione e follia, tra risoluzioni estreme e agghiaccianti colpi di scena. Nel colorare un melodramma tanto forte delle tinte del thriller, nel racchiuderlo in un’estetica cruda, grezza, dove la macchina da presa sobbalza a ridosso dei personaggi (ultime, vuote vestigia di ciò che era stato, anche per la Bier, Dogma 95), emerge, palese, l’intento fortissimo di costruzione empatica voluto dalla regista, un coinvolgimento emotivo assoluto che non ammette repliche. La Bier non ci pensa due volte, per perseguire il proprio scopo, per mettere il pubblico (volente o nolente) faccia a faccia col dilemma di un padre, per giustificare le sue nefandezze, a mostrare l’immostrabile (almeno per le visioni mainstream), a indignare il pubblico riempiendo l’inquadratura di immagini forti, fortissime.
A questo tremendo ricatto emotivo, a questa empatia forzata che nega (proprio la Bier, che dell’introspezione ha fatto il suo marchio di fabbrica) qualsiasi alterità di punti di vista, qualsiasi autonomia di giudizio (la coppia di tossici è quasi ridicola nel suo ruolo macchiettistico), si aggiunge poi lo schema di un thriller incapace di dare tutte le risposte, di colmare tutti i buchi lasciati aperti da uno sviluppo più che mai discutibile, di dare un senso convincente a un centinaio di angoscianti minuti di pellicola, lasciando poi sfociare il tutto in un imperdonabile e finale risanamento dell’insanabile.
Sono lontani i tempi di Dopo il matrimonio, lontani i tempi di storie paradossali, di personaggi a tutto tondo. La regista danese, così abile a stare sempre in bilico su un filo sottile, sopra l’abisso del banale, del patetico, dell’inutile, questa volta perde l’equilibrio, precipitando clamorosamente.
“Ti sei perso?” chiede un bambino nel finale a uno spossato, sconfitto ma gratificato Andreas, quasi come se quella domanda fosse, autocritica inconsapevole, diretta a qualcun altro, al di là della macchina da presa.
Qualcuno che di questa “seconda possibilità”, di questo tentativo di redenzione registica, non ha saputo che farsene.
Mattia Caruso