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Intervista a Zach Lipovsky

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One-to-one con il co-regista di Freaks

La cinematografia canadese si è rivelata nei decenni un’autentica fucina di talenti, destinati prima o poi a spiccare il volo. Lo è stata giri di lancette fa per i vari Atom Egoyan, Paul Haggis, James Cameron, David Cronenberg, Guy Maddin, Bruce LaBruce, Sarah Polley, Jason Reitman, Jean-Marc Vallée, Denis Villeneuve e lo è ancora più di recente per l’enfant prodige Xavier Dolan e per l’emergente Zach Lipovsky. Quest’ultimo, co-regista di Freaks al fianco dello statunitense Adam B. Stein, ci ha letteralmente conquistati con un film folgorante che dopo l’anteprima al Toronto International Film Festival 2018 ha lasciato il segno nel palmares del 18° Trieste Science + Fiction Festival, dove si è aggiudicato il Premio Asteroide per il miglior film del concorso lungometraggi e il Wonderland Award. Ed è nel corso della kermesse giuliana che lo abbiamo incontrato in un’interessantissima one-to-one.

D: Come è nato il progetto di Freaks e come si è evoluto produttivamente rispetto ad una condizione iniziale di low budget?
Zach Lipovsky: Io e il co-regista Adam B. Stein avevamo lavorato prima su altri progetti, principalmente su commissione, e avevamo l’esigenza di fare qualcosa di nostro e di personale. Entrambi condividevamo la stessa passione per i grandi film, ma sapevamo sin dal principio che non avremmo avuto un budget tale da potercene permettere uno. Durante le ricerche fondi ci siamo ritrovati a fare tappa al South by Southwest Festival e a partecipare a un incontro tenutosi al market dal titolo “Imparare a fare film con quello che si ha”. Sulla scia di quell’esperienza io e Adam abbiamo cercato di capire cosa avevamo. Lui aveva appena avuto un figlio e i suoi genitori ci potevano mettere a disposizione un ristorante e una casa. Sulla base di quelle suggestioni e di quelle location abbiamo iniziato ad ipotizzare degli sviluppi narrativi e dei luoghi dove ambientare la storia. Effettivamente il film è nato su una base low-budget per poi crescere strada facendo grazie all’ingressi in corsa di nuovi finanziatori. Questo ci ha permesso di fare un casting, cosa che all’inizio per motivi economici non era previsto, tanto che io avrei dovuto interpretare il ruolo dello zio e Adam quello del padre, affidati in seconda battuta rispettivamente a Bruce Dern ed Emile Hirsch.

D: A proposito di budget, se quello a vostra disposizione fosse stato superiore rispetto a quello sul quale avete potuto contare e se questo fosse arrivato da una Major a stelle e strisce, pensi che il risultato sarebbe stato diverso o qualitativamente più elevato?
Zach Lipovsky: In realtà no, perché il co-regista è americano e la storia l’abbiamo scritta quando eravamo negli Stati Uniti durante la campagna elettorale di Trump, cercando di restituire le sensazioni di quei momenti anche nel racconto. Paradossalmente se avessimo avuto a disposizione un budget più sostanzioso forse avremmo potuto anche fare un grande buco nell’acqua. Il vantaggio di essere indipendenti è di potere avere il controllo totale su quello che stai facendo e su tutte le fasi della lavorazione. Molto spesso capita che più soldi hai a disposizione e più le persone intorno a te sono lì che ti spingono a fare le cose in un certo modo e non come le vorresti tu.

D: La difficoltà maggiore in Freaks era quella di scoprire gradualmente le carte in gioco; in che modo avete lavorato sulla linea mistery?
Zach Lipovsky: Sostanzialmente era previsto dall’inizio perché abbiamo girato tutto il film dalla prospettiva della piccola protagonista Chloe. Infatti, tutte le inquadrature sono costruite per mettere lo spettatore nelle stesse condizioni della bambina. Di fatto, volevamo che chi guardasse la pellicola capisse quello che Chloe capiva a sua volta, ossia quasi nulla all’inizio, con una bambina completamente disorientata che lentamente prendeva coscienza di ciò che le stava accadendo. Di conseguenza dovevamo lavorare d’ingegno per mantenere questa sensazione, con Freaks che cambia pelle e genere solo quando a mutare è la one line di Chloe. In principio sembra di trovarsi al cospetto di un horror con lei che è molto spaventata da ciò che le sta accadendo, passando poi alla meraviglia spielberghiana quando la protagonista si avventura fuori dalle quattro mura della sua casa/prigione ed entra in contatto con il mondo, per poi chiudere in perfetto stile Tarantino con il più classico dei revenge movie.

D: Freaks è un film camaleontico che nel cambiare pelle passa da un genere ad un altro, da un filone ad un altro, ma hai mai avuto il timore che citazioni più o meno evidenti potesse in qualche modo depotenzializzare e togliere originalità al progetto?
Zach Lipovsky: Siamo abituati a guardare tantissimi film che hanno come protagonisti persone dotate di superpoteri, dunque inventarsi qualcosa di diverso non era facile. A mio modo di vedere, l’elemento di originalità in Freaks l’abbiamo cercato e trovato nella prospettiva, attraverso la quale abbiamo raccontato la storia, dando voce ad un personaggio che normalmente non ha questo carattere predominante in operazioni analoghe. In tal senso, non abbiamo rivolto lo sguardo ai classici cine-comics, ma piuttosto alle pellicole indi made in Sundance. L’unicità del nostro film non doveva essere incentrata sulla messa in scena della figura dotata di un superpotere ancora inedito sul grande schermo, ma essenzialmente nella prospettiva del personaggio intorno al quale ruotava l’intera vicenda, ossia quello di Chloe.

D: Metaforicamente parlando, nei freaks dei quali tu e Adam mostrate le vicissitudini è possibile vedere la condizione degli odierni clandestini?
Zach Lipovsky: È proprio così. Le persecuzioni nei confronti dei “diversi” esistono da sempre e sono ancora all’ordine del giorno. La percezione di paura legata alla figura del clandestino è presente in ogni Paese e quello che si cerca di fare è di tenerli nascosti, isolandoli. I freaks del mio film sono proprio come loro, allontanati il più possibile dalla Società e dalla nostra vista per rassicurarci. È accaduto ieri con le deportazioni e accade oggi nella quotidianità, dove si tende spesso a giudicare gli “altri”, indipendentemente che siano legali o illegali. Volevamo trattare questo argomento in una chiave drammatica, ma passando principalmente per le evoluzioni dei personaggi e non per il tema.

D: La cinematografia canadese è un’autentica fucina di talenti. In che modo tu e i tanti tuoi connazionali siete riusciti ad emergere nonostante la presenza asfissiante e lo strapotere economico dei vostri vicini?
Zach Lipovsky: Una risposta possibile la si può trovare nel fatto che il Canada è molto vicino agli Stati Uniti non solo geograficamente. Noi siamo sempre a contatto con i media americani e la cultura a stelle e strisce ci ha praticamente invaso, entrando quotidianamente nella nostra Società. Di conseguenza, un regista canadese come me per emergere deve per forza di cose fare sentire l’eco della sua voce più lontano possibile per non essere fagocitata e assorbita dal potere dei dirimpettai. Io come i miei connazionali di ieri e di oggi abbiamo dovuto trovare la nostra strada e unicità per metterci in mostra.

Francesco Del Grosso

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