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Cosa fai a Capodanno?

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VOTO: 4

Invito a cena senza delitto

In una casa lussuosa avvolta nel mistero, si incontrano una serie di sconosciuti, i quali, dopo aver condiviso la cena, si trovano coinvolti in un’intricata vicenda dagli echi surreali e paradossali. Questo accattivante plot è la sinossi di Invito a cena con delitto, vero e proprio cult diretto nel 1976 da Robert Moore, con un cast da fare invidia a qualsiasi major di tutto il mondo. Poco stupisce, dunque, il fatto che un lavoro del genere abbia, nel bene o nel male, influenzato nel corso degli anni numerosi registi e produttori, intenzionati a dar vita a qualcosa di egualmente divertente e accattivante. Operazione azzardata, quello sì. Ma, da che mondo è mondo, tentar non nuoce. E, con tali finalità, un ulteriore tentativo è stato fatto dal giovane sceneggiatore Filippo Bologna, il quale, forte del successo del recente Perfetti sconosciuti (per la regia di Paolo Genovese), ha deciso di dar vita alla propria opera prima da regista ispirandosi, in parte, sia al capolavoro di Moore, che al sopracitato film dello stesso Genovese. Ed è così che è nato Cosa fai a Capodanno?, in cui vediamo grandi nomi del cinema nostrano (da Alessandro Haber a Isabella Ferrari, da Vittoria Puccini a Luca Argentero, senza dimenticare Ilenia Pastorelli), tutti riuniti in un’isolata baita di montagna, dove, con il pretesto di organizzare un’ammucchiata, ognuno di loro è intenzionato, in un modo o nell’altro, di impossessarsi di ingenti ricchezze presenti in casa.

Ad una prima, sommaria lettura della sinossi, dunque, la cosa sembrerebbe anche assai interessante. Il problema principale, però, sta – ironia della sorte – proprio nella sceneggiatura. Dopo un incipit in cui vediamo due imbranati Valentina Lodovini e Riccardo Scamarcio alle prese con un bizzarro incidente di percorso con le catene della macchina, immediatamente veniamo catapultati nella suddetta baita, dove, uno a uno, ci vengono presentati i protagonisti. Da questo momento in avanti, la narrazione ristagna irrimediabilmente. A poco servono, dunque, veri e propri assist atti a far succedere finalmente qualcosa (vedi, ad esempio, il personaggio di Isabella Ferrari alle prese con funghi allucinogeni), ma che, di fatto, non portano assolutamente a nulla. All’interno dello script, infatti, fatta eccezione per deboli “colpi di coda” man mano che ci si avvicina al finale, tutto resta pericolosamente piatto, con tanto di sottotrame totalmente campate in aria e ingiustificatamente slegate dal plot principale (oltre al ruolo della coppia Lodovini-Scamarcio, particolarmente esemplificativo, a tal proposito, è il siparietto dei due fattorini incaricati di consegnare le aragoste nella baita, ma che, dopo una serie di deboli e forzate gag, non arriva mai a destinazione) e momenti drammatici che finiscono inevitabilmente per diventare involontariamente comici (come la scena in cui vediamo un cane spingere la sedia a rotelle di Haber).
Dato, dunque, il successo di Perfetti sconosciuti, forse ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più dal Bologna regista. Eppure, purtroppo, questo suo lavoro, fatta eccezione per un tendenzialmente riuscito piano sequenza finale che vede la macchina da presa addentrarsi per le stanze ormai vuote della baita, risulta un pasticcio maldestro e totalmente sconnesso, che fin troppo sente il peso di quanto prodotto in passato, senza riuscire a trovare una propria identità e a seguire una propria, necessaria linea di sviluppo.

Marina Pavido

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