Scandali nella Sanità di Hong Kong e giornalismo investigativo
Setacciando a distanza di settimane il programma del Far East Film Festival 2024 riaffiorano ricordi, emozioni, fascinazioni istantanee, impressioni che si sono poi sedimentate nel tempo, a riprova di opere cinematografiche tutt’altro che banali nell’affrontare determinati temi. Più in particolare, è il cinema di Honk Kong quest’anno a essersi distinto per la capacità di confrontarsi con situazioni scomode, problematiche, ponendole sotto una lente d’ingrandimento abilmente manovrata da menti tanto lucide quanto empatiche. Abbiamo già accennato all’annosa questione dei suicidi giovanili e della troppa competitività a scuola in Time Still Turns the Page di Nick Cheuk, terzo alla fine nella speciale classifica degli Audience Awards. Non meno gravi sono però le magagne emerse nel film di Lawrence Kan, In Broad Daylight…
Il cineasta hongkonghese, forte di uno script teso, incalzante, coraggioso e al contempo ruvido, urticante (quello cioè da lui elaborato assieme ai sodali Tong Chui-ping e Li Cheuk-fung), ha scelto di porre un giornalismo d’inchiesta dal piglio quasi donchisciottesco quale antidoto alla scandalosa condizione, in cui versano molte case di cura per anziani e per disabili in Estremo Oriente come anche in altre parti del mondo. Trasandatezza, abusi sessuali, altre forme di violenza nei confronti dei pazienti più deboli, cattiva gestione dei fondi, condizioni igieniche spesso precarie, corruzione degli enti e dei pubblici ufficiali preposti a controllare: sono questi alcuni dei mali che affliggono tale settore, rendendo Hong Kong più di altri luoghi una vera e propria polveriera, a livello sociale, per quanto concerne il crescente cinismo e le attenzioni sempre minori nei confronti dei cittadini più fragili, soli, anziani, malati.
Nell’affrescare una cartolina così inquietante di tali scandali, Lawrence Kan affida il ruolo di protagonista a una giornalista che non fa sconti a nessuno, Ling Hiu-kai (Jennifer Yu), la quale, infiltrandosi sotto copertura nella casa di cura Rainbow Bridge, verrà a scoprire una sorta di girone infernale cui non sono certo estranei il peggioramento delle condizioni di salute o addirittura il decesso di svariati pazienti. Ma quando ad emergere è la natura di predatore sessuale del soprintendente Cheung Kim-wah, solo apparentemente un filantropo, egli stesso oggetto a volte di compassione per via di una menomazione fisica, l’eco mediatico (e poi giudiziario) della vicenda comincerà ad avere risvolti esplosivi…
Basandosi su inchieste giornalistiche datate 2016, gli autori del vibrante lungometraggio sono riusciti in un colpo solo a centrare diverse note dolenti, per quanto concerne l’attuale “welfare” del proprio paese: il crescente degrado delle strutture sanitarie pubbliche e private, la crisi dell’informazione, il precariato tra i redattori delle testate tradizionali, la censura nei confronti di notizie ritenute scomode, l’altissimo livello di corruzione. Vieppiù lo hanno fatto realizzando un valido film d’inchiesta, che nel denunciare le storture del sistema non rinuncia a una “pietas” autentica, a una sincera commozione per il destino della terza età. Fino a quell’epilogo che può risultare sia sconcertante che amaro.
Stefano Coccia