Il giorno che Seydou perse l’aereo
L’idea vincente de Il viaggio di Yao sarebbe quella di confermare, per l’ennesima volta, le doti dell’esuberante Omar Sy nella recitazione di coppia. Dopo il successone di Quasi amici (2011) e quello più relativo ma comunque consistente di Famiglia all’improvviso – Istruzioni non incluse (2016), ecco affiancargli un altro giovanissimo interprete per un road movie tutto africano, nelle intenzioni ad alto tasso di emotività. Anche perché il buon Sy impersona nientemeno che un celebre attore francese (velleità di metacinema?), tale Seydou Tall nella finzione, di origine senegalese e richiamato nella terra d’origine per una classica toccata e fuga a carattere promozionale. A Dakar conoscerà invece l’adolescente Yao, simbolico surrogato del figlioletto lasciato in patria perché malato, giunto appositamente da un villaggio centinaia di chilometri lontano per farsi autografare il libro biografico del proprio idolo. Il volo di ritorno in Francia, insomma, dovrà attendere.
Spunti, come si potrà notare, non troppo originali, che sembrano prendere di peso brandelli narrativi dal plurioscarizzato The Millionaire, diretto nel 2008 da quel furbacchione rispondente al nome di Danny Boyle. Ed in comune i due progetti cinematografici hanno almeno un altro fattore. Appartengono cioè alla categoria delle opere “colonialiste” in campo cinematografico; adottando cioè precisi stereotipi europei da applicare a quelle location un tempo appartenute alla madre patria. Lì l’India per la Gran Bretagna, qui il Senegal per la Francia. Allora pronti, partenza e via con una blanda denuncia del colonialismo (quello autentico), con un’Africa tipicamente da cartolina con notti, albe e tramonti tremendamente suggestivi poiché ottimamente fotografati; con gli indigeni tutti bravi ed ospitali, pronti a dividere il cibo con estranei nonché donne di apparente dubbia moralità che si rivelano poi di buon cuore e ugola d’oro, beninteso nel senso del canto. Tutte prerogative che contribuiscono ad affogare Il viaggio di Yao in un oceano di prevedibilità assortite. Quello, insomma, che avrebbe dovuto essere il classico romanzo di formazione in chiave di viaggio iniziatico diventa il pretesto per una commedia quasi del tutto priva di spunti drammatici, nella quale ovviamente i ruoli finiranno per scambiarsi e confondersi – infantile il Seydou di Omar Sy, saggio lo Yao cui dà vita il bravo e serioso Lionel Louis Basse – fino ad un epilogo che sancirà la definitiva maturazione di entrambi. E la morale di fondo? Facile anch’essa: mai perdere le proprie radici. Un messaggio perfettamente in linea con il tenore sentimentale di un lungometraggio sin troppo addomesticato per suscitare empatia nei confronti di un pubblico più esigente della media.
Non fosse per la buona alchimia recitativa che si stabilisce cammin facendo tra i due attori appena menzionati e per una certa profondità del monologo finale da parte del giovanissimo Yao, il film diretto da Philippe Godeau – regista buono per ogni genere ed occasione, giunto alla sua terza opera registica – meriterebbe un giudizio persino più severo. Se al contrario l’intera operazione si mantiene sulle soglie di una stentata sufficienza lo si deve anche al fatto di saper evitare il ricorso al facile pietismo, saltando a pie’ pari svolte narrative strappalacrime che sarebbero state decisamente eccessive e fuori contesto. Tuttavia, oltre ad un comunque discutibile senso della misura, sarebbe bene ricordarsi che la vera Africa, quella dove i danni della cosiddetta opera di civilizzazione occidentale sono tuttora ben visibili, avrebbe un aspetto del tutto differente. E sarebbe pure cosa buona e giusta se anche il cinema commerciale provvedesse a riportare alla luce, in tempi a dir poco oscuri di sovranismi versus migrazioni, tale colossale rimosso storico. Utopia.
Daniele De Angelis