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Il silenzio grande

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Il silenzio grande
VOTO: 7.5

«Tanti silenzi piccoli…»

Ancora su nero sentiamo il ronzio – sembra – di una mosca. La testa china sulla macchina da scrivere, il sole che entra dalla finestra alle spalle di Valerio Primic (un impeccabile Massimiliano Gallo) e, come in una magia (chissà che non voglia essere un vero e proprio omaggio all’arte teatrale), la prima polvere che vediamo sembra quasi quella ‘da sparo’ (e, forse, a “Sik-Sik, l’artefice magico” di Eduardo), come se fossero scintille da cui compare tutto. Nel frattempo Bettina (la governante interpretata dalla sublime Marina Confalone, insignita quest’anno dell’International Starlight Cinema Award alla Carriera) ci viene presentata attraverso il gesto quotidiano che maggiormente la caratterizza: spolverare – azione che assume, col tempo, anche un valore simbolico.
Non è semplice scrivere de Il silenzio grande senza svelare un aspetto che si rivela la chiave di tutto. Presentato in occasione della 18esima edizione delle Giornate degli Autori – sezione autonoma e parallela della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia -, il film segna la terza regia cinematografica di Alessandro Gassmann (che si concede un ruolo particolare al suo intorno). L’opera è tratta dall’omonima pièce teatrale di Maurizio De Giovanni (la prima pensata appositamente dall’autore per la scena), che firma anche la sceneggiatura insieme ad Andrea Ozza e lo stesso Gassmann. Proprio quest’ultimo, incontrando lo scrittore mentre girava I bastardi di Pizzofalcone (fiction tratta dai suoi romanzi – attualmente è in onda in prima serata su Rai1 la terza stagione, nda) lo esortò «a scrivere un testo teatrale legato a Napoli e alla sua aura sotterranea di mistero (Il commissario Ricciardi sia sul piano dei libri che poi nella trasposizione per lo schermo con, in primis, un ottimo Lino Guanciale, va anche in questa direzione, nda). Maurizio lo scrisse in soli 20 giorni e quando lo lessi, pensai subito che fosse un’opera che rivelava forti radici e potenzialità per un film che mi sarebbe piaciuto dirigere», ha dichiarato il regista. «Lo spettacolo che abbiamo allestito ci ha regalato emozioni indimenticabili fin dal debutto in scena avvenuto due anni fa al Festival del Teatro di Napoli e poi durante una stagione di repliche di grandissimo successo interrotta per il Covid a febbraio del 2020 (è prevista una ripresa nel 2022 con il cast dello spettacolo: oltre a Gallo, Stefania Rocca, Monica Nappo, Paola Senatore, Jacopo Sorbini, nda). Il silenzio grande racconta la storia di una famiglia che in qualche modo somigliava alla mia, con un grande capofamiglia molto colto e molto noto, e accanto a lui sua moglie, la governante di sempre della casa e due figli ventenni. Una storia segnata da conflitti, equivoci, confronti, luci ombre, silenzi ed esplosioni di parole, risate e angosce di una famiglia tanto eccezionale quanto, nel suo intimo, caotica e disfunzionale, dove tutti parlano e nessuno veramente ascolta.
Parliamo di legami familiari, di cambiamenti inevitabili, del tempo che passa, e lo facciamo alla metà degli anni Sessanta a Napoli, a Posillipo. Un grande e celebre scrittore di fama internazionale, Valerio Primic, per motivi misteriosi è a corto di ispirazione e non scrive più libri da dieci anni per cui lui, sua moglie Rose (una Margherita Buy che stupisce rispetto all’immagine in cui spesso l’hanno incastonata fino ad ora e che lavora in sottrazione) e i suoi due figli ventenni, Massimiliano (Emanuele Linfatti) e Adele (Antonia Fotaras), non potranno più permettersi di continuare a vivere nella splendida villa in cui abitano, un tempo lussuosa dimora, ora scricchiolante magione che sembra uscita da un racconto di fantasmi. La casa è stata messa in vendita da Rose per necessità: una decisione dolorosa che provoca forti reazioni nei figli che perderebbero così l’involucro dorato che li avvolge, nella fedele governante Bettina che si dispera per la prospettiva di non avere più una casa in cui vivere e in Valerio […]. In particolare i figli e la moglie decidono di raccontare allo scrittore cose difficili: la ragazza gli rivela di essere incinta; il ragazzo, che si sente schiacciato da un padre che eccelle così straordinariamente in tutto, finisce col rivelargli la propria omosessualità e si sorprende quando scopre che il padre non si sconvolge e anzi avrebbe voluto che gliene avesse parlato prima; la moglie gli dice che la vendita della villa è stata finalmente perfezionata e che i nuovi proprietari sarebbero arrivati presto. Il finale imprevisto capovolgerà il punto di vista dello spettatore e servirà a giustificare le tante stranezze emerse nel corso del racconto.
Si tratta di una vicenda incentrata sui sentimenti e sugli affetti familiari che abbiamo scelto di ambientare nel 1965 per raccontare un’Italia e un modo di parlare ormai scomparso: a quell’epoca nel nostro Paese e nel mondo eravamo tutti più vicini, la parola, la comunicazione e il contatto erano molto più importanti mentre invece oggi si parla sempre meno […] C’era una certa forma che accompagnava i rapporti tra le persone, improntati comunque ad un maggiore rispetto, attenzione e ascolto, qualcosa che è andato completamente perduto in una società in cui si ascolta molto meno e questo è un aspetto che coinvolge anche i più giovani, a loro volta puniti dalla mancanza di attenzione e di ascolto da parte dei genitori».
Lo stesso Gassmann dichiara che il film è teatrale, ma non nell’accezione di ‘teatro filmato’ (anche perché i movimenti di macchina, seppur delicati e consoni all’idea di messa in quadro, si avvertono e sono funzionali sul piano narrativo), ma in quanto si avverte la matrice nella direzione di «un impianto claustrofobico perché restiamo sempre all’interno di una villa ma abbiamo cercato di lavorare sulla misura, sulle intenzioni rarefatte degli attori, senza spingere troppo verso la risata o la commozione come spesso succede nei film italiani». Per quanto concerne la messa in scena, in cui la fotografia risulta essenziale e muta in base all’«omogeneità emotiva» direbbe il nostro protagonista, una grande nota di merito va innanzitutto alla fotografia di Mike Stern, conosciuto sul set del film Non odiare, oltre che al montaggio curato da Marco Spoletini. Da I bastardi di Pizzofalcone e dalla stessa pièce si è portato la colonna sonora composta da Pivio Pischiutta e Aldo De Scalzi, che ben accompagna climax e colpo di scena della storia. «Massimiliano Gallo ha avuto finalmente l’opportunità di recitare finalmente per il cinema un ruolo da protagonista per cui ha dimostrato di essere pronto e maturo rivelandosi un attore di categoria ed eleganza superiore. Gli ho chiesto di usare misura e compostezza e lui, anche se portava sulle sue spalle l’intera storia, lo ha fatto in maniera sobria e misurata, al punto da sembrare in scena quasi un attore… scandinavo. È un uomo con una bellissima faccia e gli occhi azzurri, in certi momenti appare bellissimo e in altri soprattutto buffo. Di lui ho sempre apprezzato la fantastica ironia. Rappresenta il motore comico del film, insieme a Marina Confalone riesce a far ridere anche se sposta solo un sopracciglio e poi incarna un personaggio che lo tocca molto in profondità perché è figlio di un grande artista molto amato e molto speciale, il cantautore napoletano Nunzio Gallo. Ha vissuto il suo personaggio in maniera molto personale e intensa, ha fatto un gran lavoro ‘in levare’ rispetto a quello fatto in teatro, riproponendo il suo personaggio in maniera molto diversa: nonostante gli applausi e le risate sicure sperimentate in palcoscenico ha ‘tolto’ tutto e ora fa ridere ancora di più». Impossibile non avvalorare queste parole di Gassman in merito a Gallo, riconoscendone la veridicità ancor più se si è visto lo spettacolo e sul piano dell’interpretazione. È effettivamente lui a portare avanti il plot, con una certa complicità con la Confalone (scopriremo perché) sia nei punti in cui strappano dei sorrisi, sia in quelli in cui malinconia e domande prendono il sopravvento. I due giovani interpreti, che già abbiamo avuto modo di conoscere in particolare nelle serie, ma non solo, sono all’altezza della propria parte e non era semplice proprio perché tutto ruota intorno a parole, silenzi, non detti, sguardi abbassati e sguardi che vorrebbero guardare dritto negli occhi. Per onor di cronaca ci sembra doveroso citare Roberto De Francesco a completamento del cast.
«Il silenzio è una brutta malattia, voi l’avete presa senza accorgervene (Bettina si sta rivolgendo al professore, nda). Comincia piano e poi cresce come una specie di muro […] Il silenzio piccolo non ve lo so spiegare bene: è quando uno pensa mo glielo devo dire e poi, chissà perché pensa: meglio che mi sto zitto e lo pensa ogni volta… alla fine tanti silenzi piccoli fanno un silenzio grande, enorme».

Maria Lucia Tangorra

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