Avere almeno un solo motivo per vivere
La prima immagine non poteva che essere proprio quella del commissario Ricciardi (Lino Guanciale), un primo piano in cui gli occhi sono profondi e, al contempo, li si percepisce intrisi di malinconia. Basta un fotogramma per accorgersi di come quest’uomo sia assorto in pensieri e che, per (soprav)vivere indossa la maschera quotidiana – la sfila, quasi con naturalezza, solo quando guarda e ascolta i morti con cui deve convivere. Se lo spettatore (compreso chi non abbia mai letto un romanzo di Maurizio de Giovanni da cui sono tratte le sei puntate di questa serie) decide di approcciarsi alla visione con attenzione, coglierà immediatamente come “Il senso del dolore” (titolo della prima puntata) si renda palese già dal primo dialogo con il brigadiere Raffaele Maione (Antonio Milo), il quale preferisce non rincasare e fare gli straordinari visto il clima in famiglia dopo la prematura scomparsa del figlio primogenito, Luca, agente di polizia ucciso in servizio.
«Nuje ca cercammo Dio
stammo pe’ sempe annure
nuje ca cercammo ‘o bbene
nun simmo maje sicuri
e nun c’abbassta niente
e cchiù n’amma sapè
nun simmo maje cuntenti»
[…prosegue]
A poco più di un minuto, il sax, le note di un pianoforte e la morbidezza della chitarra ci fanno subito pensare al compianto e indimenticabile Pino Daniele. Su “Maggio se ne va”, in una Napoli notturna, avvolto nel suo trench, Ricciardi cammina sul basolato vesuviano bagnato (sembra quasi di sentire l’odore dopo la pioggia) – e chissà se anche dalle lacrime interiori di un uomo tormentato – fino ad arrivare al suo appartamento, dove l’attende la tata Rosa (Nunzia Schiano), pronta a prendersi cura di qualcuno che, andrebbe direttamente a letto senza cena, desideroso di andare alla finestra per osservare di fronte la giovane e timida Enrica (Maria Vera Ratti). Le musiche curate da Pasquale Catalano (tra i vari riconoscimenti ha ricevuto il Golden Graal per la Migliore Colonna Sonora per Le conseguenze dell’amore di Sorrentino) pongono, senza essere mai invadenti, i giusti accenti anche sugli apparentemente impercettibili cambi di tono (basti pensare agli archi sulla battuta «Buonasera amore mio», quasi sussurrata nel silenzio della propria camera da letto, con uno sguardo diverso da quando era in commissariato, quello di chi vorrebbe provare – forse – ad andare oltre, ma ha paura di ‘fare del male’ a chi gli è accanto).
Ci è venuto spontaneo soffermarci tanto sui primi minuti de “Il silenzio del dolore” per provare ad entrare in punta di piedi in questa storia e in queste vite, a partire da quella del protagonista principale; oltre a voler evidenziare subito quanta cura ci sia nella ricostruzione degli ambienti (dall’arredamento ai costumi), delle emozioni e della città in cui tutto accade.
Siamo nel marzo 1931, «mentre un inverno particolarmente rigido tiene la città stretta in una morsa di gelo, un assassinio scuote l’opinione pubblica per la ferocia con cui il crimine è perpetrato e per la notorietà del morto» (dalla sinossi ufficiale). La macchina da presa, ci porta, infatti, nella splendida location del Teatro San Carlo e precisamente nel punto in cui, la gente del popolo urla: «hanno ammazzato compare Turiddu» (da “Cavalleria Rusticana” di Mascagni). Nulla accade per caso, tanto più nei libri e nei film di genere (in questa circostanza ci troviamo di fronte a un mix anche col melò e il mystery), e il nostro entrare in teatro su quell’intermezzo dovrebbe suggerirci qualcosa, in cui l’opera presagisce la vita vera.
La vittima è il grande tenore Arnaldo Vezzi, un artista noto a livello mondiale, amico del Duce, e, come ogni copione che si rispetti, viene trovato assassinato nel proprio camerino prima che andasse in scena con “Pagliacci” (libretto e musica di Ruggero Leoncavallo, ma quasi sempre rappresentata insieme a “Cavalleria rusticana”). Ed è qui che entra in campo il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, accompagnato dal fidato brigadiere, non curante di ‘etichette’ né delle intimidazioni del suo diretto superiore (Garzo, incarnato da Mariano Pirrello), ma solo desideroso di compiere il proprio lavoro per scoprire la verità. Sulla scena del delitto è inizialmente da solo, ma quasi subito si palesa il suo dono-maledizione derivante dalla madre: «Io non parlo coi morti, come uno di quei medium […] Io vedo il dolore. Vedo il rimpianto, la sofferenza. Sento l’eco dell’amore che scompare, gli artigli che si spezzano nell’ansia di trattenere l’ultimo lembo della vita che se ne va. Sento l’urlo che accompagna la caduta nell’abisso. Quello che sento è l’ultimo pezzo di vita, non il primo della morte» (da “Incontro con Ricciardi” dello stesso de Giovanni all’interno de “Il senso del dolore” – Einaudi Editore, p.196). In questo caso è proprio il tenore che, vestito da Canio per “Pagliacci”, cita, però, una battuta di Alfio nella scena VIII da “Cavalleria Rusticana” – nel corso delle indagini e dello sviluppo drammaturgico, si rivelerà un importante indizio.
Non vogliamo raccontarvi oltre sul piano del giallo, ma ci sembra importante soffermarci su alcuni punti che ci hanno indotto ad apprezzare molto già questa prima puntata (potrebbero essere considerate anche dei film a sé, ma c’è un filo che le lega) de Il commissario Ricciardi, in cui, sopratutto assumendo l’ottica del protagonista, abbiamo modo di conoscere Livia Luciani (Serena Iansiti), la vedova del tenore, il dottor Modo (Enrico Ianniello) – un anatomopatologo antifascista dai modi cinici, ironici e schietti. E ancora Lucia Maione (Fabrizia Sacchi) in cui la maschera del dolore non sembra solo ‘indossata’, ma ormai tutt’uno con la pelle, senza contare i silenzi assordanti – sembrerebbe di poche parole, in realtà, quando parla, emerge tutto il profondo dolore che l’attanaglia e non le fa cogliere altro.
Non era semplice raffigurare quello che il lettore immagina con la propria fantasia e con quella dell’autore (per altro parliamo di romanzi di successo), ma D’Alatri, Guanciale e tutto il cast riescono a restituire il commissario messo nero su bianco in una presenza ‘vivificata’ – questo vale anche per gli altri personaggi che diventano persone tangibili. Merito va anche alla sceneggiatura curata dallo stesso de Giovanni con Salvatore Basile, Viola Rispoli e Doriana Leondeff, a tutto lo staff tecnico e, ulteriore nota di merito non possiamo che farla al direttore della fotografia Davide Sondelli, il quale cavalca perfettamente lo spirito e le atmosfere della scrittura di de Giovanni, a tratti enfatizza i chiaroscuri degli ambienti esterni e interiori, senza, però, mai eccedere – tutto è misurato, calcolato nelle minime trasparenze, nella luce più calda del commissariato (dovuta anche all’arredo) così come nei giochi sottili di luci e ombre.
In questo momento storico, culturale e sociale, fa un certo effetto che l’esordio di questa serie sia proprio in un teatro, non solo perché le sale teatrali, cinematografiche e musicali sono chiuse dal 26 ottobre 2020 fino a nuovo ordine, ma anche per il ‘gioco’ (ora sottile, ora intuitivo) innescato tra realtà e finzione. «Ricciardi ha, sin dall’inizio, un punto di vista teatrale sul mondo», ha dichiarato Guanciale nel corso dell’incontro stampa, a cui va dato atto di un’interpretazione molto intensa, che lavora in sottrazione proprio in linea col personaggio che deve incarnare, il quale allontana per il timore di ferire. A ciò si aggiunge l’abilità di saper essere all’occorrenza una ‘sfinge’, ma anche un uomo con un profondo senso di pietas, con cui resta impossibile non empatizzare. «È, in parte, pure la storia di un grande flâneur, cioè di un uomo abituato ad attraversare, da una certa distanza ma senza perdere alcun dettaglio, il respiro di altri esseri umani, di un tempo nel suo complesso e di una città. Quest’ottica somiglia proprio a quella che un attore deve acquisire per approcciarsi al proprio mestiere, che consiste nel mettersi nei panni degli altri, ovvero passare la vita a osservarli, a cercare di comprenderli empaticamente, anche sospendendo spesso il proprio il giudizio. Tutti questi elementi sono insiti in Ricciardi», ha continuato l’interprete, il quale ha dimostrato, ancora una volta, di non voler rimanere in una zona di comfort, ma di volersi mettere in gioco, affrontando con precisione, professionalità e il desiderio del confronto (conscio che si tratta di un risultato di gruppo) quest’ultima sfida.
Tornando a “Il senso del dolore” non vi nascondiamo che porrà degli interrogativi anche a chi vi assiste, oltre a mettere le basi per le prossime cinque puntate, che – ‘azzardiamo’ sulla base di ciò che ci ha conquistati in questa – vi consigliamo di seguire (ogni lunedì, in prima assoluta, alle h 21,25 su Rai1).
Maria Lucia Tangorra