«Il lavoro del commissario Ricciardi è un’indagine emozionale sulla sofferenza»
Dai romanzi di Maurizio de Giovanni (editi da Einaudi), a partire da lunedì 25 gennaio, in prima visione assoluta su Rai1, si può assistere alla prima delle sei puntate (da circa 100’ ciascuna) della tanto attesa serie: Il commissario Ricciardi, diretta da Alessandro D’Alatri con Lino Guanciale.
«Una potente contaminazione di generi – poliziesco, mystery e melò – per un racconto coinvolgente che, sullo sfondo di una Napoli in chiaroscuro, indaga sul senso ultimo della vita e del dolore» (dalla nota ufficiale).
Si tratta di una coproduzione Rai Fiction-Clemart, prodotta da Gabriella Buontempo e Massimo Martino, scritta dallo stesso Maurizio de Giovanni con Salvatore Basile, Viola Rispoli e Doriana Leondeff. La serie è stata girata in 28 settimane di riprese di cui 9 in Puglia, le altre in Campania e per questo è giusto anche ringraziare le rispettive Film Commission.
Nel cast, oltre a Guanciale, troviamo: Antonio Milo (Maione) , Enrico Ianniello (dr. Modo), Serena Iansiti (Livia), Maria Vera Ratti (Enrica), Mario Pirrello (Garzo), Peppe Servillo (don Pierino), Fabrizia Sacchi (Lucia Maione), Nunzia Schiano (Rosa), Marco Palvetti (Falco), Adriano Falivene (Bambinella), Massimo De Matteo e Susy Del Giudice.
Abbiamo avuto l’opportunità di partecipare all’incontro stampa virtuale a cui hanno preso parte: il regista, il protagonista principale, Antonio Milo (il quale incarna, si potrebbe dire, «l’ombra fidata di Ricciardi») e due delle interpreti femminili con un ruolo ben preciso ed essenziale – Serena Iansiti e Maria Vera Ratti. È stata un’importante occasione per approfondire i temi così come la preparazione molto accurata della serie.
D: Andare indietro nel tempo, con un impegno notevole per scenografia e costumi, comporta anche al regista di ‘sudare sette camicie in più’?
Alessandro D’Alatri: Assolutamente, avevo annunciato già all’inizio che questa questa sarebbe stata sicuramente l’esperienza più complessa della mia carriera e non mi ero sbagliato perché è stato davvero così per tanti motivi. In primis perché c’era una mole narrativa imponente che nasceva dai romanzi di de Giovanni, dove ciascuno dei romanzi avrebbe potuto essere una serie di per sé vista la complessità dei personaggi, la presenza di sapori ed essendo presenti più fili narrativi – dalla detection a quella sentimentale e soprattutto quello sovrannaturale. Poi, c’era l’elemento storico: una Napoli degli anni ‘30 – non ho trovato cinematografia che l’avesse raccontata, è stata rappresentata più nel disagio della guerra o subito dopo. È stata un’avventura incredibile perché bisognava ricostruire un’immaginifico di ciò che conoscevamo di quell’epoca. Avevo già attraversato quegli anni, da ragazzo, ne Il giardino dei Finzi Contini di De Sica (dove interpretava Giorgio da ragazzino, nda) così come nel mio primo film Americano rosso e Il commissario Ricciardi è stato un ritorno felice, a mio parere, in particolare per l’aspetto inedito di indagare e raffigurare la Napoli di allora. Non è stato semplice ricostruire la città di allora per cui c’è stato un grandissimo sforzo produttivo e artistico. I vicoli – l’aspetto dei quartieri Spagnoli e della Sanità – li abbiamo ricostruiti a Taranto, che è una città borbonica, che aveva mantenuto lo stesso aspetto e sapore. In più andava tenuto conto dell’elemento fondamentale di questa serie: il commissario Ricciardi. Non si poteva realizzare questo progetto senza innamorarsi di lui, senza entrare dentro il suo stato d’animo e il suo spirito. È stato il punto più complesso e, al contempo, più bello perché, alla fine, mi sono ritrovato con questo personaggio che è nato dalla fantasia, ma che, in qualche modo, avevo vicino: è stato lui a prendermi per mano e a portarmi nel suo viaggio. Va detto che la letteratura di Maurizio ha facilitato molto il compito perché è ampiamente raccontato e descritto in tutti i suoi molteplici aspetti: è un barone cilentano (perciò non napoletano), benestante, il quale decide di fare il commissario – un lavoro molto anomalo per un personaggio di quel tipo – e l’altro tasto interessante è la sua dannazione e, al tempo stesso un dono trasmessogli dalla madre che consiste nella capacità di poter vedere le anime delle persone morte, ma di morte violenta. È un segreto con se stesso e soprattutto nutre il terrore di trasmettere questo elemento a qualcun altro, è un’opposizione al femminile: un uomo che teme di riprodursi e vive in questo stato, non è in una condizione di facile trasparenza di sentimenti.
Raccontarlo, però, è stata la cosa più bella: siamo abituati a vedere sempre il melò, a consumare immediatamente i passaggi della relazione col femminile, in questo caso è presente un tormento straordinario che ha reso, a mio parere, l’aspetto sentimentale più interessante. In più è stato stimolante narrare questa ingenuità dell’Italia di quell’epoca perché è un’ultima Italia – dalla guerra in poi abbiamo smesso di essere quell’Italia lì, si è verificato un enorme cataclisma che ha modificato il nostro modo di essere italiani. Nei racconti di Ricciardi, invece, ci sono gli elementi che salvano una famiglia che noi non conosciamo più, per esempio la famiglia Maione è meravigliosa, don Pierino porta la relazione che esisteva tra la religione e gli italiani di allora. Rispetto al fascismo, non siamo ancora a quel fascismo che mostrerà i denti poco tempo dopo; si sente un’opposizione che è rappresentato dal medico legale, grande amico di Ricciardi.
Tutto questo è stato veramente un viaggio fantastico: la ricostruzione diegetica dei sapori, della musica, delle atmosfere, dei linguaggi così come della società trasversale.
Abbiamo dovuto ricostruire un’umanità trasversale, che solo a Napoli era possibile fare in questo modo poiché il patrimonio attoriale a cui abbiamo attinto è unico nel paese anche perché c’è una drammaturgia teatrale storica napoletana che ha consentito una crescita e uno sviluppo di un parco attoriale – abbiamo ben 350 ruoli in questa prima stagione. L’impaginazione generale è stata molto complessa proprio perché stiamo parlando di una metropoli e non di un paese: l’arredamento di Antonio Di Pace è stato meraviglioso ricostruendo nei minimi dettagli qualsiasi cosa entrasse in contatto coi personaggi; lo stesso è avvenuto coi costumi: Alessandra Torella è stata capace di mettere in piedi un lavoro sul tessuto dell’epoca (quegli anni erano forse i più belli sia per l’abbigliamento maschile, ma soprattutto per quello femminile).
D: Quale difficoltà comporta un ruolo del genere o quello ne La porta rossa rispetto a una parte più ‘ordinaria’ come quella di Claudio Conforti ne L’allieva?
Lino Guanciale: Senza fare graduatorie di legame affettivo con i vari personaggi che ho avuto la fortuna di interpretare, riguardo al caso specifico di Ricciardi, prima ancora di innescare il lavoro di ricerca così fruttuoso per me in termini di crescita personale e artistica con Alessandro e con tutti i miei colleghi, la grande fortuna è derivata dall’avere un imprinting da lettore laico. Avevo letto alcuni racconti e uno dei romanzi della serie prima che mi fosse comunicato di essere in ballo per questo ruolo così bello, quindi da lettore molto curioso e onnivoro quale sono, non potevo non essere incuriosito da questo enorme importante caso letterario dei nostri ultimi 10 anni.
Ho approcciato Ricciardi e ne sono stato un lettore entusiasta, prima ancora che mi venisse comunicato che potevo concorrere per questa responsabilità in termini attoriale e questo imprinting da lettore è un po’ l’approccio che ho scelto di seguire, nel senso che più che costruire una proposta a partire da un incarico dato, potevo già fare leva su degli elementi di fascinazione che avevano agito in me in maniera del tutto libera cioè quando la mia posizione era, a tutti gli effetti, quella di un lettore tra le centinaia di migliaia di lettori della serie. Credo che questo contribuisca a restituire un po’ di verginità al lavoro e a speriamo, in qualche modo, a facilitare una certa comunicazione tra la proposta che ho organizzato per questa serie tra i lettori affezionati che saranno spettatori e gli spettatori che potrebbero diventare lettori.
D: Quali potenzialità ha Napoli sul piano del noir?
A. D’Alatri: Il rapporto tra la vita e la morte a Napoli è celebrato ogni giorno e quindi credo che sia uno dei luoghi paradossalmente più spettacolari per poter raccontare questo, le capuzzelle cioè i teschi li vediamo all’ingresso delle chiese, lungo le strade. Il napoletano vive il rapporto con la morte non soltanto in modo oppressivo e di dolore, ma c’è anche una celebrazione della morte per l’esorcismo della paura della morte. Il personaggio di Ricciardi, interpretato da Lino, entra in questo rapporto straordinariamente perché la città partenopea presenta questo peso specifico, conferitogli da secoli di storia.
D: Il regista accennava alla celebrazione dei sentimenti: può essere anche questo che contribuisce alla fascinazione dei personaggi?
L. Guanciale: È molto evidente con quanta genuinità, autenticità e semplicità tutti questi personaggi si approccino alle relazioni più strette in un mondo che, invece, comincia a essere acceleratamente complesso. Sono in questo figure e, secondo me, molto attuali, soprattutto se pensiamo alla nostra dimensione odierna, costretta a ristringersi attorno ai nodi più semplici e primari dell’affettività, che presenta poche regole facili, ma che in questo momento purtroppo, per esempio, ci vengono negate in un mondo molto molto complesso. In questa integrità affettiva sta secondo un grano di grande modernità della scrittura.
A. D’Alatri: I romanzi di de Giovanni giocano sui sentimenti, anche su quelli più ostili, ma è una purezza proprio di stile e di racconto che è contenuta nella sua narrativa. Ad esempio: vedere l’amicizia profonda che lega Ricciardi con Maione o con Moto o le relazioni di tensione sentimentale con le tre donne importanti di questa storia (oltre a Livia ed Enrica, ricordiamo il ruolo essenziale di Rosa, nda), sono personaggi che potrebbero stare benissimo in un presepe di San Gregorio Armeno perché sono figure colorate napoletane.
D: Nel corso della prima puntata proprio Livia dice di aver rinunciato alla propria carriera per stare accanto all’uomo su cui indagherà Ricciardi. Voi cosa pensate di questo elemento e a che punto siamo oggi?
Serena Iansiti: Il mio personaggio rinuncia alla sua carriera apparentemente senza grandi sacrifici. Conosce questo genio della musica e della lirica e decide di dedicarsi a lui. All’epoca, era una scelta consueta nell’atteggiamento della donna, si poteva comprendere di più. Adesso, la situazione è cambiata? Credo di sì: c’è più indipendenza da parte delle donne, maggiore collaborazione tra compagni anche nello scegliere di avere una famiglia. Certo c’è ancora una disparità nei compensi lavorativi, anche per quel che riguarda il mio settore; ci si augura che si accelerino i mutamenti pure in questo. Sicuramente se il personaggio di Livia, fosse stato scritto ai giorni nostri, considerando il carattere, non credo che avrebbe rinunciato al suo percorso professionale per seguire quest’uomo coì talentuoso, ma anche molto difficile e neanche tanto amabile.
Maria Vera Ratti: Negli Anni ‘30 ci si poteva aspettare tranquillamente che una donna rinunciasse alla propria carriera per un uomo, non so neanche se all’epoca fosse così comune per una donna avere una carriera, Livia sarà stata un’eccezione. All’epoca le donne conducevano una vita più domestica poi dipende sempre dalle classi sociali; oggi, forse, ci si aspetta l’opposto da una donna ovvero che non rinunci alla sua carriera – parlo pensando per quanto riguarda me e la mia cerchia. L’aspettativa nei confronti del rapporto di una donna con la propria carriera è qualcosa che trasmette un po’ d’ansia e non dovrebbe esserci perché le scelte sono soggettive, comprese quelle professionali e così dovrebbe valere anche per un uomo. Se oggi toccasse a lui dover rinunciare per stare accanto a una donna, che magari in quel momento è sulla cresta dell’onda, diciamo che potrebbe capitare; anche se ancora viene vista come qualcosa di inconsueto. Mi auguro che questa concezione stia cambiando e che la libertà di scelta individuale non debba essere legata più a un giudizio o a un senso di aspettativa di condizioni morali, di cosa è giusto fare o meno.
Enrica lavora nella serie, anche se non so se la sua professione si possa definire col termine carriera. È una maestra, quindi qualcosa che poteva portare tranquillamente avanti a casa, teoricamente anche da sposata. Non non ha dovuto fare particolari sacrifici sotto questo punto di vista. Credo che il mio personaggio avrebbe rinunciato a tutto per il commissario, ma lui non glielo avrebbe chiesto.
D: La prima puntata s’intitola “Il senso del dolore” e ha una forte connessione col teatro. Che tipo di ‘senso del dolore’ state attraversando nel non sapere quando potrete ricalcare le tavole del palcoscenico?
A. D’Alatri: È un dolore immenso: abbiamo visto i teatri chiusi, ma anche i cinema, le scuole, le università ed è una ferita insanabile. Speriamo che sia recuperabile nei prossimi tempi; ma adesso il dolore che si è seminato è enorme: una società che non riesce a raccontare il teatro, l’arte, i musei, è una società che va verso una cancellazione di se stessa, quindi auspico che questo dolore passi al più presto.
L. Guanciale: Parafrasando il titolo del primo romanzo della serie e anche della nostra prima puntata: il senso del dolore è un dolore senza senso. Nonostante tutte quante le statistiche confermassero che il teatro così come il cinema fossero luoghi sicuri dal punto di vista del contagio, si è rinunciato a tenerli aperti per una logica che è comprensibile – cioè quella per cui bisogna evitare spostamenti serali, al di fuori di quelli lavorativi e si è disposti ad accettare anche il dolore, pure quello senza senso, lì dove la priorità è il benessere e la salute di tutti. Quello che lamento è la mancanza di trasparenza perché ci sta che non si abbiano le idee chiare di fronte a un’emergenza che non ci si è mai trovati ad affrontare; ma, d’altra parte, sapere a quanto destinare il nostro ritorno, anche soltanto virtualmente, predisporrebbe chi fa teatro a organizzarsi meglio sia la vita pratica sia anche la necessità di un ritorno che non può consistere in: ‘ops c’è stato un blackout, adesso siamo tornati quelli di prima’. No, il teatro adesso si deve organizzare come raccontare il mondo che è cambiato, quindi c’è bisogno di sapere che tipo di destino vogliamo dare a tutto questo.
Inoltre, ritengo che gran parte dell’opinione diffusa secondo cui, tutto sommato, siamo quelli che fanno divertire – quindi ci si può anche fermare un attimo – sia nostra responsabilità perché non ci siamo preoccupati abbastanza di raccontare una cosa che, ancora oggi, facciamo fatica a raccontare: chiedi a un artista di dire perché è necessario il suo lavoro, pochi riescono ad essere efficaci e precisi perché non ci siamo mai trovati di fronte alla situazione di doverci difendere, in quanto partivamo dall’idea che tanto, anche se, in fondo, non ce lo si chiedeva mai, il nostro lavoro fosse riconosciuto come utile. Abbiamo scoperto, invece, che non è esattamente così quindi dobbiamo essere i primi a capire perché siamo utili, che necessità ha il mestiere e il sapere che portiamo. Una volta fatto questo, se capiamo bene quando possiamo ritornare in palcoscenico, non dico che comincia ad avere un senso il dolore, ma ridiamo un po’ senso alle nostre vite.
D: A tal proposito, il personaggio incarnato da Milo – il brigadiere – il dolore ce l’ha in casa per via della perdita del figlio (sono le prime battute che ascoltiamo). In che modo hai approfondito questo aspetto e come si sviluppa?
Antonio Milo: Maione ha un grandissimo dolore e vuoto: il lutto per la perdita di un figlio. Questo, ovviamente, lega a doppio filo con il commissario perché, al di là dell’essere il suo braccio destro e seguirlo in tutto e per tutto sul piano professionale; grazie a Ricciardi riesce a comprendere quel vuoto e forse a superarlo e perciò rimane grato alla sua figura. Mi piace molto una frase scritta da De Giovanni: «Non hai paura del commissario» e Maiore risponde: «No, non mi importa quello che vede, mi basta quello che ha nel cuore». I sentimenti servono per superare i momenti bui della vita. La forza dei personaggi è nell’empatia: tutti vengono raccontati come esseri umani, sono persone in 3d.
D: Hai temuto che l’aspetto sovrannaturale spingesse troppo verso il magico e l’esoterico?
A. D’Alatri: Il lavoro del commissario è un’indagine emozionale sulla sofferenza. “Il senso del dolore”, che è il primo romanzo, dà proprio la percezione di questo specifico approccio di Ricciardi nei confronti degli altri. Lui è e pratico con la sofferenza delle anime, su questo fa fatica chi non ci crede perché tutti noi abbiamo un rapporto con l’intangibile; dall’altra parte non ho avuto paura di utilizzare questo elemento perché tutta la serie – sia narrativa che quella realizzata da noi – è costituita da un tot di fili di cachemire che vanno a intrecciarsi tra loro, compreso l’aspetto della commedia. La complessità di questo progetto, a mio avviso, non consisteva soltanto nello stabilire una linea stilistica poiché esistono più linee che confluiscono fra loro.
D: Lino, potresti approfondire l’incontro con D’Alatri?
L. Guanciale: È arrivato in un momento mio professionale in cui avevo proprio bisogno di una guida come la sua, avevo la necessità di una forma di confronto come quella avuta con lui: discutendo e condividendo tanto, costruendo insieme l’immaginario comune sui personaggi e le situazioni tramite interminabili e divertenti chiacchierate, è poi abile, con pochissimi assestamenti, di prendere da te quello che è più giusto. Lo ringrazio tantissimo ancora adesso perché è stata una forte opportunità di crescita, ho avvertito un momento di passaggio importante che mi auguro venga colto.
Prima di concludere la conferenza, l’attore di origini abruzzesi ci tiene a effettuare i ringraziamenti e si avverte che sono particolarmente sentiti: «I primi vanno a Rai Fiction e alla Clemart per aver creduto in una scommessa così importante. Il ringraziamento ulteriore va a tutti i lavoratori dello spettacolo che hanno preso parte a questo set, dagli ultimi – in senso di tempo – dagli assistenti fino a Davide Sordelli, il nostro direttore della fotografia che ha fatto un lavoro eccezionale soprattutto per il modo con cui l’ha portato avanti (macchinista ed elettricista di se stesso). A ogni singolo macchinista, elettricista, ragazzo di produzione, agli assistenti alla regia di Alessandro, a tutti coloro che sono stati con noi sul set, allo staff di trucco e parrucco va la gratitudine di ognuno di noi. Ovviamente saluto e ringrazio tutti i miei compagni di viaggio, compresi coloro che non hanno potuto prendere parte a questo incontro, se non ci fosse stato questo humus di comunità, sarebbe stato impossibile per me lavorare su questo progetto».
Maria Lucia Tangorra