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Il medico di campagna

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VOTO: 8

De rerum natura

Se il titolo italiano concentra l’attenzione sul ruolo professionale del personaggio principale, è in quello originale che andrebbe ricercato il vero significato di un’importante opera come Il medico di campagna. Médecin de campagne possiede infatti una duplicità di senso che va oltre il pur fondamentale protagonista del film, ammantando la questione di ulteriori argomentazioni filosofiche sulla vita rurale fuori dai centri cittadini. Un’esistenza cosiddetta a misura d’uomo ma che rivela, oltre ad un indubbio accrescimento del sentore di autentica comunità, anche la tipica asprezza di una Natura impossibile da piegare alle esigenze umane, con la quale è indispensabile venire a patti. Il medico in questione diventa quindi amico, punto di riferimento inamovibile, veterinario all’occorrenza e intimo confidente quando necessario.
Il lungometraggio diretto dal bravo Thomas Lilti si fonda su alcuni pilastri ben definiti: la capacità tutta francese di riuscire a mimetizzare la macchina da presa nella realtà che si intende raccontare – in tal senso la lezione di un maestro del calibro di Bertrand Tavernier pare aver trovato terreno fertilissimo – donandole una parvenza di verità difficilmente riscontrabile in altre cinematografie contemporanee. Ma anche, di conseguenza, incontrare la poesia insita nella vita quotidiana senza cercarla in modo troppo evidente, facendola germogliare spontaneamente tra le righe di un discorso di rilevanza notevole senza mai essere pedante o, peggio, ridondante. Chiaro che buona parte del merito di una eccellente riuscita va assegnato alla performance degli attori, su tutti il magnifico François Cluzet. La sua personificazione di un medico di campagna (appunto) di nome Jean-Pierre Werner, il quale vive la propria professione ventiquattro ore su ventiquattro ogni giorno e che si scopre improvvisamente malato di cancro inoperabile, lascia un segno davvero indelebile nell’immaginario dello spettatore. Ciò anche grazie alla precisione alchemica di una sceneggiatura originale – opera dello stesso regista in compagnia di Baya Kasmi e Khalladi Shérazade – in grado di far emergere con sopraffina gradualità la vera essenza caratteriale del personaggio ben oltre l’apparente muraglia innalzata come sorta di difesa personale sia a causa della malattia che per un accidentato passato di rapporti interpersonali. E ovviamente sarà una donna, una collega benissimo interpretata dalla magnetica Marianne Denicourt, ad avere la funzione di maieuta delle contraddizioni presenti nel carattere di Werner, in modo da affrontarle e forse superarle. Un confronto tra personalità differenti anche brusco, almeno inizialmente, che oppone un’apparente forza che si rivelerà una reale debolezza e un’apparente debolezza che al contrario si rivelerà una forza capace di superare ogni ostacolo. Attorno a questi punti cardinali ecco muoversi una fauna “antropologica” perfettamente aderente al contesto di realtà sociale assieme affascinante e respingente, racchiusa in una dimensione esistenziale apparentemente bloccata nella sua atemporalità ma sempre pulsante e vitale.
Se Il medico di campagna, inteso come film, soffre di un difetto (veniale) è quello di affastellare troppi accadimenti in un finale nel quale si esplora in modo sin troppo esplicito assunti quintessenziali come la morte e la rinascita, discorsi “alti” che il lungometraggio diretto da Thomas Lilti si rivela comunque perfettamente in grado di sostenere. E, piccola nota a margine, l’ascolto a sorpresa dell’immensa “Hallelujah” del recentemente scomparso Leonard Cohen in una serata country organizzata dalla comunità, lascia la pelle d’oca ben oltre la visione del film.
Onore dunque alla BIM, in questo specifico caso, che ha scelto il periodo natalizio per distribuire il film. Tra Il medico di campagna e lo straordinario Paterson di Jim Jarmusch sappiamo anche noi italiani che un altro Natale al cinema, qualitativamente parlando, è possibile al di fuori dei logori circuiti della commedia nostrana.

Daniele De Angelis

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