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Il castello di vetro

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VOTO: 6

L’utopia non realizzata

Quello delle famiglie disfunzionali sta ormai divenendo un vero e proprio sottogenere, per il cinema statunitense. E chissà se questa tendenza non sia rivelatrice di un desiderio occulto di rompere l’ipocrisia delle regole sociali vigenti, tornando magari ad un’epoca – ci riferiamo agli anni settanta in particolare – dove la maggiore libertà era sinonimo di crescita più rapida pur tra mille difficoltà. Ad ogni modo questo Il castello di vetro, traduzione per una volta fedele al titolo originale, ribadisce ancora una volta il discorso, anche se con molti distinguo rispetto ad una visione, definiamola così, “wesandersoniana” della materia.
Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico scritto dalla giornalista Jeanette Wells – ovviamente punto di vista privilegiato nel film – Il castello di vetro parte come un’originale dramedy su una famiglia “randagia” alla Captain Fantastic di Matt Ross (2016) per poi trasformarsi, per certi versi in modo sin troppo repentino, in un’autentica discesa nell’incubo, in cui tutto gira attorno al personaggio del capofamiglia Rex. Estremamente sfaccettato – in linea generale la descrizione dei vari caratteri presenti nel film è sufficientemente accurata – costui si trasfigura, nel corso della visione, da padre-filosofo in grado di impartire un’educazione fuori dagli schemi per i quattro figli (tre femmine ed un maschio) a uomo violento e preda del vizio del bere, con qualche concreto sospetto di trauma pedofilo subito dalla madre degenere. Un brusco cambio di toni, con troppa metaforica carne messa a cuocere dopo una prima parte narrativamente assai quieta nel suo svolgersi, che penalizza in buona parte un film comunque dall’afflato abbastanza sincero nel descrivere determinate dinamiche famigliari. Si comprende bene, anche al netto di qualche prevedibile edulcorazione, il desiderio insopprimibile da parte dei figli, una volta cresciuti – Il castello di vetro è narrato su due differenti piani temporali che intrecciano presente e flashback – di fuggire dal giogo paterno. Eppure, nonostante una performance gigionesca ai limiti dell’overacting di Woody Harrelson, quella di Rex è una figura capace di racchiudere nel proprio alveo tutte le contraddizioni dell’essere umano medio, troppo imperfetto per ottemperare alla sua funzione pedagogica nei confronti dei figli ma pure con qualche merito nei confronti della loro crescita. Diventa simbolo ideale di tale inadeguatezza proprio quell’abitazione in vetro che fornisce il titolo al lungometraggio, residenza che Rex progetta per l’intera durata del film senza mai nemmeno iniziarla.
Non innalza di troppo la qualità del film nemmeno la regia del carneade Destin Daniel Cretton, director hawaiano quarantenne evidentemente poco abituato a modulare opere dai molti sottotesti, anche perché derivanti dalla vita vissuta. Per sua fortuna, a compensare cali di ritmo e ripetizioni narrative che non mancano anche in virtù di una durata eccessiva (due ore e sette minuti), ecco brillare le interpretazioni femminili a dare nuova linfa all’insieme. Se Naomi Watts – nei panni rassegnati per amore di mamma Rose Mary – non può certo essere definita una rivelazione nella sua efficace recitazione in mezzo tono quasi a compendiare quella di Harrelson, bravissima risulta Brie Larson (ammirata in Room, 2015) nelle vesti della Jeanette adulta – ma pure Ella Anderson, che interpreta lo stesso personaggio da bambina, fa il suo – vero catalizzatore delle non moltissime emozioni che scaturiscono dalla fruizione di un lungometraggio che avrebbe potuto aspirare ad un’autentica epica famigliare se solo avesse goduto di una regia ed uno script maggiormente calibrati. Così com’è rimane un prodotto come tanti, confinato nell’aura mediocritas dei film del tutto privi del coraggio di assumersi il benché minimo rischio. E anche le suggestive immagini dei veri protagonisti della vicenda, sui titoli di coda, non inducono a quella commozione che una maggiore empatia nel corso della finzione avrebbe certamente provocato.

Daniele De Angelis

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