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Humandroid

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VOTO: 7.5

Presa di coscienza

Per la sua terza fatica dietro la macchina da presa dal titolo Humandroid, evento speciale alla sesta edizione del Bif&St e nelle sale nostrane con Warner Bros a partire dal 9 aprile, Neill Blomkamp continua a puntare sulla fantascienza. Per farlo, rimette le mani sul plot di un cortometraggio da lui scritto e diretto nel 2004 (Tetra Vaal), che a dieci anni circa di distanza diventa la base narrativa di un’operazione sulla lunga distanza, che più che con il precedente Elysium sembra avere maggiori affinità elettive con il folgorante esordio District 9. Con quest’ultimo ha in comune l’origine (anche per l’opera prima, il regista ha riadattato un suo short del 2005 battezzato Alive in Joburg), ma anche la cornice metropolitana di Johannesburg e l’ambientazione retro-futuristica nelle quali immerge storia e personaggi, a differenza del film del 2013 che li aveva proiettati in un futuro dispotico dove l’umanità risultava divisa in due caste: pochi eletti, i ricchi, che vivono su un’enorme stazione spaziale orbitante, lussuosa, avveniristica e fornita di un perfetto ecosistema, e i poveri,  confinati sulla Terra, ormai sovrappopolata, malsana e poco abitabile perché in forte degrado. In Humandroid, i protagonisti di turno e con loro gli spettatori vengono risbattuti brutalmente sul nostro tanto bistrattato pianeta dove, a sorvegliare sul crimine, c’è una forza di polizia oppressiva meccanizzata. Quando un poliziotto droide, Chappie, viene rubato e riprogrammato, si trasforma nel primo robot con la capacità di pensare autonomamente. Le forze potenti e distruttive cominciano a vederlo come un pericolo per l’umanità e l’ordine, di conseguenza non si fermeranno davanti a nulla per mantenere lo status quo e garantire che Chappie sia l’ultimo della sua specie.
Sin dalla sinossi è facile rintracciare, oltre che tutta una serie di riferimenti, omaggi e citazioni più o meno espliciti cinematografiche (da A.I. a Io, Robot, da Robocop a Corto circuito, passando per Blade Runner, Terminator e naturalmente per lo sterminato archivio di pellicole appartenenti al suddetto filone, a cominciare da Metropolis) e letterarie (da Frankenstein a Pinocchio, dalle pagine di  Harlan Ellison a quelle firmate da Philip K. Dick e Isaac Asimov), più di un elemento ricorrente nella filmografia del regista sudafricano, che ne hanno decretato una certa riconoscibilità, tanto dal punto di vista drammaturgico quanto da quello della messa in scena e della messa in quadro. Elementi che nella riproposizione ciclica all’interno delle architetture degli script e nel progetto estetico-formale non appaiono, però, in nessun caso, figli di una carenza di idee o di una qualche forma di pigrizia creativa, piuttosto l’espressione di una continuità e di una coerenza tematica e stilistica. In tal senso, ci troviamo a fare i conti nuovamente con un contesto fantascientifico che diventa terreno fertile nel quale piantare argomenti quali la xenofobia, la segregazione razziale, l’uso distorto del Potere e della Legge, ma anche il pericolo sempre più minaccioso di piombare in una Società completamente automatizzata e sempre più schiava delle macchine e delle intelligenze artificiali. Temi, questi, che nella Settima Arte e soprattutto nello Sci-Fi hanno trovato e continuano a trovare ampio spazio fin dalla notte dei tempi del genere, ma che il regista ha fatto suoi plasmandoli e mettendoli a disposizione di una versione e di una visione personali della Terra da lui immaginata.
Se in District 9 erano gli umani a ghettizzare una popolazione di profughi alieni e in Elysium erano gli uomini ad essere vittime e aguzzini di se stessi, in Humandroid la situazione si ribalta completamente, mettendo l’uomo in una posizione di sottomissione non solo fisica ma anche intellettiva, rispetto a un dominio di “natura” cibernetica, semplicemente raccontando una storia di un droide poliziotto che diventa senziente e inizia a mostrare caratteristiche che sono più morali, etiche e coscienziose rispetto a qualsiasi altro essere vivente. Sta qui il punto nevralgico intorno al quale ruota e si sviluppa un film che non brilla certo per originalità, ma che ha saputo prendere in prestito cose per restituirne delle altre. Il risultato regala alla platea uno show pirotecnico e balistico che, nel suo alternare di azione (da non perdere la scena del conflitto a fuoco tra gang locali, SWAT e polizia robotica) e stasi, humour nero e dramma, prova, riuscendoci a nostro avviso, a guardare all’alto quanto al basso così da assecondare ogni tipologia di palato e di gusto. Mainstream e autorialità si mescolano senza soluzione di continuità in un’opera che sa come intrattenere il fruitore, anche grazie a una confezione registica solida e versatile, all’efficacia degli effetti speciali e al contributo davanti alla macchina da presa di un terzetto ben assortito formato da Hugh Jackman, Sigourney Weave e Dev Patel.

Francesco Del Grosso

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