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Grandma

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VOTO: 6.5

Il bene e il male del cinema indipendente

L’applauso che ha seguito la proiezione di Grandma, ultima fatica del regista Paul Weitz, presso la decima edizione della Festa del Cinema di Roma, è un’ulteriore conferma del grande riscontro di pubblico che i film indipendenti, premiati o comunque acclamati ai vari Sundance Film Festival, sono in grado di ottenere. In Grandma ritroviamo quasi tutte le caratteristiche distintive di tal genere di produzioni: montaggio pulito, fotografia accattivante e dai colori caldi, largo uso di primi piani volti a fermare microespressioni e sorrisi accennati, ma soprattutto il proposito che tutti questi elementi concorrano a dare al film un’impressione di spontaneità e di naturalezza, la quale dovrebbe essere agevolata dalle movenze allo stesso tempo comiche e drammatiche che lo attraversano.
Con Grandma Paul Weitz, noto per i lungometraggi diretti assieme al fratello Chris (si ricorderanno American Pie (1999) ed About a Boy (2002) ) ma anche per realizzazioni autonome come Being Flynn (2012) ed Ammision (2013), mette in scena la storia di Elle (Lily Tomlin), una poetessa omosessuale dal carattere forte e dirompente,  che  da un anno e mezzo ha perduto Violet, la compagna di una vita. Un giorno riceve la visita della sua nipote diciottenne Sage (Julia Garner) , che le riferisce di essere incinta e di aver bisogno di 630 dollari per abortire, ma Elle non ha soldi da darle:  le due donne iniziano così un’esperienza on the road nel disperato tentativo di racimolare il denaro entro le 17 e 45 di quello stesso pomeriggio, orario dell’appuntamento fissato in clinica da Sage.
Non è la prima volta che il delicato tema dell’aborto viene affrontato dal cinema indipendente americano: lo aveva già fatto Juno (2007) (fulminante esordio allo script di Diablo Cody che le valse il premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale) e con le stesse armi di Grandma, vale a dire approcciando con leggerezza un argomento serio e spinoso, nel tentativo di illuminarne alcuni aspetti che una trattazione fredda e cattedratica non sarebbe forse stata in grado di raccontare. Ma, dall’altra parte, Grandma si differenzia da Juno per almeno due caratteristiche: innanzi tutto non si prefissa di infrangere un solo tabù, quello dell’aborto, al quale affianca quello dell’omosessualità femminile, soggetto per il quale il cinema di questi ultimi anni ha rinnovato il suo interesse (ci riferiamo ovviamente a La vita di Adele di Adbelattif Kechiche (2013), ma anche a Carol di Todd Haynes (2015), a Io e lei di Maria Sole Tognazzi (2015) ), e in secondo luogo l’occhio del regista non è più quello di una donna, un dettaglio tutt’altro che irrilevante e che sorprendentemente porterà la narrazione verso un esito più radicale.
Girato in 19 giorni e con un budget di 600.000 dollari, Grandma è un film che rispetto ad altre pellicole indipendenti riesce a dare un’impressione di maggior onestà, grazie ad una buona sceneggiatura che regala momenti genuinamente comici ma soprattutto alla forza dirompente del personaggio magistralmente interpretato (si parla di un probabile Oscar) da Lily Tomlin: una donna forte che reagisce ad un passato doloroso grazie ad una grande intelligenza, ad una buona dose si cinismo e ad un umorismo tagliente, ma della quale Weitz si compiace eccessivamente nel rappresentarne il lato più sguaiato e politically incorrect, correndo il rischio di rendere piatto e monocorde un personaggio potenzialmente complesso. Rischio che Weitz non riesce proprio a superare per quanto riguarda la figlia di Elle, Judy (Marcia Gey Harden), donna in carriera nevrotica e iperattiva senza un briciolo di indole materna, e al ragazzo di Oliva (Nat Wolff), adolescente ribelle e irrispettoso, al quale verrà ovviamente data la lezione che merita. Sono tutti difetti, quelli che ineriscono alla caratterizzazione dei personaggi, che finiscono per sottrarre al lavoro di Weitz fin troppa credibilità, e che rendono prevedibili gli esiti a cui porteranno le varie situazioni.
Coerentemente con gli scrupoli estetici propri delle produzioni indipendenti, la narrazione di Grandma  è rigorosamente ordinata in capitoli  (proprio come l’ultimo fenomeno doppiamente vincitore al Sundance Festival Me, Earl and the Dying Girl di Alfonso Gomez-Rejon, presentato allo scorso Festival di Locarno) e può vantare una certa scorrevolezza ed un ritmo veloce ed omogeneo, raggiunti grazie alla sobrietà del montaggio, privo di stratificazioni. Ma il contributo più rilevante offertoci da Grandma comincia a profilarsi sono nella sua ultima mezz’ora, quando lo spettatore si rende conto che questa volta, diversamente da quanto avveniva in Juno, la strada imboccata dalla giovane Oliva sarà percorsa sino in fondo: una scelta narrativa coraggiosa e che avrebbe meritato uno spazio e approfondimento maggiori.
Il modello del Sundance Film Festival, con il suo intimismo e la sua semplicità che è in realtà  la risultante di studiatissime costruzioni, è da molti considerato la ventata d’aria fresca di cui il cinema odierno sentiva il bisogno: senza spingerci ad avvalorare un giudizio così generalizzante e semplicistico, concludiamo dicendo che Grandma rappresenta sicuramente ciò che di buono il cinema indipendente avrebbe da offrire, ma le tendenze caricaturali, la prevedibilità degli snodi narrativi ed un confezionamento che ha dell’artificioso finiscono per inficiarne la qualità.

Ginevra Ghini

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