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Free Country

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VOTO: 6.5

Terra ostile

Autunno 1992: gli ispettori di polizia Patrick e Markus vengono spediti in un piccolo villaggio per indagare sulla scomparsa di due giovani sorelle di 15 e 16 anni. Le ragazze sono soltanto scappate dal loro paesino o è accaduto qualcosa di più terribile? In questo angolo sperduto di mondo, si sentono ancora gli effetti del regime della Germania Est. Nessuno ha visto nulla e i detective si scontrano così con una cortina di silenzio. Una foto delle due ragazze nude legate a un tronco sembra condurre verso la pista del crimine sessuale. Il terribile sospetto trova la sua tragica conferma con il ritrovamento dei corpi delle due ragazze, violentate e brutalmente uccise. Mentre si fanno avanti i parenti delle giovani donne, la cortina di silenzio che circonda i poliziotti si trasforma in aperta ostilità. Chi sta nascondendo qualcosa e perché? Quando i detective iniziano a svelare il mistero, capiranno ben presto di essere anche loro in pericolo.
Se la suddetta trama vi risuona alquanto familiare, risvegliando nella vostra mente echi di qualcosa di già visto, sappiate che è assolutamente normale. Per avere delle risposte in merito, è sufficiente riavvolgere le lancette dell’orologio sino al 2014, anno in cui Alberto Rodríguez Librero portava sul grande schermo La isla mínima. Ed è proprio della pluridecorata pellicola spagnola che Free Country, presentato in concorso nella sezione “Panorama Internazionale” all’undicesima edizione del Bif&st, è il remake, con Christian Alvart al timone di un rifacimento che salvo cambiamenti di natura spazio-temporale ha riproposto fedelmente la trama della matrice originale.
Di sostanziale da registrare nel passaggio di testimone c’è la geolocalizzazione e il periodo storico che fanno da sfondo: da una parte troviamo un piccolo villaggio andaluso delle paludi del Guadalquivir, nell’anno 1980, mentre è ancora in atto la transizione dal franchismo ad una democrazia compiuta, dall’altra un paesino della Germania a solo due anni dall’ufficializzazione della riunificazione tedesca. Momenti e luoghi diversi, entrambi ostili e alle prese con situazioni di transizione e di tensione. Tensioni che si tramutano in bombe ad orologerie destinate ad esplodere, a generare orrori e a partorire carnefici pronti a mietere vittime. Nel mezzo si muovono detective con visioni opposte e scheletri nell’armadio, costretti a sporcarsi le mani per ottenere risposte su efferati delitti. Contestualizzazioni e disegno dei personaggi che in entrambe le versioni funzionano, consegnando allo spettatore di turno due serial-thriller in odore di crime e noir capaci di generare tensione e angoscia persistenti. Elementi che in La isla mínima hanno per quanto ci riguarda una temperatura costante e una progressione più efficace, a differenza di Free Country dove si assiste a un continuo sali e scendi che mette in evidenza qualche passaggio a vuoto, ma che non creano mai delle crepe insanabili. Scene come l’inseguimento notturno o l’epilogo nell’impianto di depurazione alzano e di molto il tasso di adrenalina, sparando nelle vene del fruitore una dose massiccia di azione e violenza in grado di lasciare il segno.
Il lavoro di Alvart prosegue in perfetta simbiosi con quello del suo predecessore anche sul piano della messa in quadro e della costruzione dei personaggi. In tal senso si assiste a una copia in cartacarbone sul piano delle performance attoriali e della direzione, la stessa che l’occhio più squisitamente tecnico potrà notare anche dal punto di vista formale, laddove il cineasta tedesco ricostruisce quasi filologicamente intere scene o singole inquadrature, mettendoci di tanto in tanto qualche tocco personale.

Francesco Del Grosso

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