Il gioco del silenzio
Se anche nella ventiseiesima edizione del Far East Film Festival il Giappone ci ha finora proposto diverse opere connotate da sensibilità e introspezione, sia nell’affrontare delicate questioni personali che nel relazionarsi alla vita di tutti i giorni, a scompigliare le carte in tavola è sopraggiunto un titolo, la cui eccentricità per non dire unicità è già eloquente (per quanto muto, vista la forma adottata) biglietto da visita: Motion Picture: Choke di Nagao Gen, qui al suo secondo lungometraggio.
Schermo completamente scuro nei primi, lunghissimi istanti del film. E poi si viene precipitati in una sorta di futuro barbarico, apparentemente post-apocalittico, ma dai contorni così imperscrutabili e indefiniti da potersi quasi considerare una realtà parallela, alternativa; una realtà espressa per giunta in quel bianco e nero, cui si può rimproverare soltanto di essere fin troppo leccato, “pulito”, in relazione alle situazioni anche piuttosto crude che avranno luogo in seguito. Ma visto che tra le chiavi narrative ivi proposte vi è pure la deformazione grottesca, una surreale rivisitazione di archetipi, quello stesso ricorso a una fotografia raffinata, intrigante nei contrasti soprattutto durante le scene notturne a carattere onirico, acquista senso strada facendo.
Protagonista di tale racconto cinematografico è una donna, impersonata da quella Wada Misa che al Teatro Nuovo Giovanni da Udine si è presentata con un elegante kimono, ma che nel film appare vestita (e svestita) in modo tale da ricordare quasi le eroine di un certo filone “primitivo”, a partire dall’indimenticabile Raquel Welch di Un milione di anni fa. Centrale è qui proprio il cortocircuito tra frontiere differenti dell’immaginario: gli stravaganti lungometraggi di ambientazione preistorica un tempo di moda e per l’appunto il survivor movie, i cui tratti fondanti vengono però rivisitati da una prospettiva tanto personale quanto bizzarra. Laddove i contatti tra gli esseri umani sono regrediti al baratto, alle più ingenue creazioni artistiche, alla perdita della comunicazione verbale (come si è in parte anticipato il lungometraggio è completamente privo di dialoghi), alla competizione ferina per il cibo, per un riparo sicuro e, volendo, per le donne.
Ecco, nella contrapposizione della protagonista all’elemento maschile vi è senz’altro una componente femminista, messa in risalto dai modi predatori che hanno nei suoi confronti i diversi sbandati giunti al suo cospetto. Ma senza alcuna cancrena ideologica. Difatti ciò che colpisce nelle modalità della rappresentazione è più che altro la varietà di toni, comprendente ad esempio una buffa love story col giovane “cavernicolo del futuro” da lei preso – letteralmente – in trappola, il cui romanticismo iniziale verrà poi reindirizzato, sfumato, corrotto dalle pieghe beffarde e violente della narrazione. Se ne deduce a quel punto che il regista, col suo umorismo luciferino e le tante trovate stranianti, più che a una scontata prospettiva di genere punti a un lucido pessimismo sui rapporti umani, parafrasato nelle ingegnose invenzioni narrative di Motion Picture: Choke, film in cui la lotta per la sopravvivenza prende le pieghe più disparate, di volta in volta maggiormente crude, farsesche, paradassoli o sognanti.
Stefano Coccia