T’amo, o pio Bova
Ci sono settimane in cui il calendario delle anteprime cinematografiche propone notevolissime insidie. In questo caso chi scrive, per vari motivi, si è trovato a dover scegliere tra l’anteprima di Fratelli unici e quella del film di Paolo Ruffini, programmata un paio di giorni dopo. Colpi di fortuna che non si verificano poi così spesso. Occorreva forse una monetina, per effettuare il classico “testa o croce”. Ma a pensarci bene sarebbe stata ancora più idonea una monetina truccata; sì, una monetina con “croce” su entrambe le facce, perché in fondo l’impressione di scegliere tra una croce e l’altra era già presente in noi. E così seguendo l’istinto (o magari un’insospettabile vocazione masochista) abbiamo optato per l’essere crocefissi in compagnia di Raoul Bova, Luca Argentero, Carolina Crescentini, Miriam Leone e altri sventurati interpreti, che il regista Alessio Maria Federici (suoi, tanto per dire, Lezioni di cioccolato 2 e Stai lontana da me, commedia sulla sfiga con protagonisti Enrico Brignano e Ambra Angiolini) ha trascinato in questa produzione cinematografica ruffiana e vuota, la cui comicità supera di rado il livello espresso dagli studenti delle scuole medie. Quelli del primo anno con qualche serio problema di socializzazione, per essere più precisi…
Eppure, nella sua assoluta mediocrità un film come Fratelli unici è innegabilmente costruito con una certa scaltrezza, riscontrabile nelle diverse astuzie commerciali poste in atto. Tale consapevolezza si esprime già con forza nell’uso, così furbetto e ammiccante, che viene fatto dell’elementarità della trama, centrata sul rapporto ora scorbutico e ora tenero tra due fratelli dall’indole assai diversa. Premesso che tra Bova e Argentero è quasi gara di “piacionismo” attoriale condotta senza esclusione di colpi, seppur con sportività, la natura dei loro personaggi dice tutto. La perdita di memoria cui va incontro il fratello apparentemente più sprezzante e sicuro di sé, conseguentemente a un malessere improvviso, è l’elemento che condiziona tutto l’evolversi del racconto, producendo sia digressioni umoristiche che pistolotti romantici. Ed è quindi la regressione infantile di Pietro, impersonato da Raoul Bova con irresistibili faccette da cucciolo bistrattato, a far scattare come una trappola quel subdolo transfert emotivo, quell’invito a empatizzare coi protagonisti rivolto principalmente a un pubblico femminile che deve accontentarsi veramente di poco; un pubblico, insomma, che vorrebbe vedere/sapere a tutti i costi “addomesticato” qualche maschio aitante e dalle indiscutibili potenzialità seduttive, così da sentirsi rassicurare un po’, attraverso la contemplazione del versante fragile, mansueto e giocherellone rivelato, in tempi diversi, da personaggi abituati in precedenza a pavoneggiarsi; sia che si tratti dello scapestrato da redimere (Luca Argentero), sia che a essere esibita sia la metamorfosi ancor più sconvolgente dell’uomo in carriera (Raoul Bova).
Con le reazioni della platea femminile rappresentate direttamente, sullo schermo, da Carolina Crescentini e Miriam Leone, questa commedia romantica dall’impronta conformista, ipocrita e prevedibile non risparmia certo, strada facendo, una serie di colpi bassi davvero raggelanti: dal product placement così sgraziato e invasivo da far rimpiangere certe puntate de I ragazzi della 3ªC, fino alla caratterizzazione forzata e razzistoide del meridionale di turno (che tra gli sceneggiatori ci sia anche il Luca Miniero di Incantesimo napoletano, sembrerebbe quasi un autodafè), i motivi per cui rabbrividire sono davvero tanti. E tra questi, in chiusura, si potrebbe menzionare la regia stessa, oscillante tra l’impostazione fotografica di una fiction televisiva e la pretesa di vivacizzare, con qualche svolazzo fine a se stesso, un succedersi di sketch banale e approssimativo.
Stefano Coccia