Possessioni imbambolate
Prequel o spin-off? In epoche in cui per forza di cose è necessario definire al di là di ogni ragionevole dubbio qualsiasi prodotto – quindi anche un film, in questo specifico caso – non stupisce che, alla fine della fiera, sia proprio questo l’argomento più pregnante da trattare a proposito di Annabelle. Quest’ultima è una bambola a grandezza quasi naturale posseduta da uno spirito maligno (ovviamente femminile, altrimenti non si chiamerebbe così…) che fa la sua prima comparsa cinematografica sul finale de L’evocazione – The Conjuring (2013), buon horror dagli echi classici diretto da uno dei registi più interessanti del filone, il trentasettenne malese James Wan, in Annabelle semplice produttore. Dato il successo del film, si pensa – in attesa del sequel vero e proprio – di dedicare una pellicola proprio alla bambola diabolica, ambientando il plot diversi anni addietro il lungometraggio primigenio. Quindi Annabelle può essere considerato un po’ entrambe le cose. Chiusa parentesi.
Quello che invece dovrebbe mettere un tantino sul chi va là lo spettatore è la decisione di affidare al direttore della fotografia de L’evocazione – nonché dei due Insidious, sempre diretti da Wan – John R. Leonetti la regia del film in questione. Le riserve prendono forma concreta dopo pochi minuti di visione: Annabelle infatti non è altro che un riciclaggio nemmeno troppo abile di fatti e situazioni presenti negli altri titoli citati, peraltro caratterizzati da una mano assai sicura in regia che qui viene clamorosamente a mancare. Dopo un prologo piuttosto riuscito in termini di suspense, dove una coppia di satanisti assale un’altra giovane coppia borghese con lei in dolce attesa – materializzando di nuovo, in un interessante “gioco” di opposti, uno degli incubi americani per eccellenza da Charles Manson in poi – il film si adagia su una sceneggiatura ripetitiva e poco fantasiosa, che rischia di far scattare più spesso lo sbadiglio che lo spavento. Giradischi e macchine per cucire – sia pur oggetti adesso deliziosamente vintage e perciò in teoria rassicuranti – che si azionano da soli, misteriose entità che si palesano dietro le porte: tutto, inserito poi senza una costruzione logico-narrativa, davvero troppo già visto e digerito per creare il benché minimo sussulto. Ogni horror che si rispetti dovrebbe partire da un’idea, forte o meno, di sceneggiatura o almeno di messa in scena: in Annabelle latitano entrambi gli aspetti. Anzi, nella seconda parte il film cade a più riprese in quella che probabilmente è la trappola maggiormente temuta nell’ambito del genere, ovvero l’umorismo involontario. Un esempio? In pieno marasma demoniaco a casa di Mia, la giovane madre assalita e ferita nel prologo, il personaggio di Evelyn (la veterana Alfre Woodard, unico nome di un certo rilievo nel cast) esorta con la massima naturalezza l’amica a lasciare la magione maledetta, quasi si trattasse di uscire a fare shopping. Chiaramente senza successo…
Insomma il sottogenere “bambole e/o bambolotti animati da forze oscure”, molto in voga, per non guardare troppo indietro, negli anni ottanta, avrebbe meritato una rinascita decisamente migliore. Questo Annabelle, che prometteva almeno fuochi d’artificio degni di un capodanno a Fuorigrotta, in realtà offre giusto qualche innocuo petardo da stadio. La nostalgia canaglia fa tornare la memoria al piccolo cult a basso costo Dolls (1987) di Stuart Gordon, o al primo La bambola assassina (1988), diretto da quel nobilissimo artigiano rispondente al nome di Tom Holland. Operine che non ambivano a diventare dei classici dell’horror ma che, nel corso del tempo, si sono ritagliati una nicchia assolutamente di rilievo – soprattutto nel caso del mortifero Chucky di Child’s Play, assurto a straordinaria popolarità dopo ben sei sequel – nel cuore degli appassionati. Traguardo che temiamo sarà negato alla poco fascinosa Annabelle, nonostante l’epilogo minacci come da prammatica ulteriori seguiti del prequel e dello spin-off. Chissà se la vile pecunia degli incassi riuscirà una volta tanto a rendersi utile, bloccando sul nascere una prospettiva quella sì davvero spaventosa…
Daniele De Angelis