Una folle corsa
Gigantesco e beffardo paradosso: un film tanto agognato su una leggenda motoristica che finisce imbrigliato nella complessa descrizione dei rapporti interpersonali che contrassegnano il suo protagonista, inibendo l’epica cinematografica di uno dei più grandi autori viventi. Ma sarà veramente andata così?
Ci riferiamo, ovviamente, a Ferrari di Michael Mann, biopic sui generis che prende in esame solo alcuni fondamentali mesi – nel corso del fatidico anno 1957 – nell’esistenza di Enzo Ferrari, mitico creatore della “Rossa” ben conosciuta in ogni angolo del globo. E proprio al pari di una macchina da corsa il lungometraggio Ferrari – presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2023 – impiega del tempo a carburare perfettamente, tanto da non sembrare, almeno inizialmente, una creatura figlia di Michael Mann. Azione quasi azzerata e molta attenzione, forse troppa, sulla non facile situazione sentimentale del protagonista, ormai separato in casa dalla moglie Laura, con il figlio Dino precocemente scomparso ad aggravare la situazione, ma innamorato da anni di Lina Lardi, da cui ha avuto Piero, vivace bambino in perenne attesa di essere riconosciuto ufficialmente dal proprio padre biologico. Una relazione più o meno segreta che diventerà palese nel corso del film, accrescendo la tensione poiché Laura, con la quale Enzo ha fondato la celeberrima casa automobilistica nell’immediato dopoguerra (1947), possiede la metà delle azioni della stessa.
Al fine di inquadrare al meglio la figura del protagonista Michael Mann e lo sceneggiatore Troy Kennedy Martin non esitano a lambire il trash (Laura che dice ad Enzo “rivoglio la mia pistola”, cui segue amplesso sul tavolo della cucina), riuscendo comunque nella non facile impresa di cogliere l’essenza di un uomo ossessionato dalla vittoria, un imprenditore che fabbrica e vende automobili di lusso con il solo scopo di partecipare e vincere nelle più importanti corse automobilistiche. Ed è in questo specifico frangente che emergono di prepotenza le caratteristiche tipiche del cinema manniano, quell’epica alla quale si faceva riferimento poc’anzi. Ferrari, inteso come film, si muove allora, quasi filosoficamente, tra due punti cardinali: nascita e morte. In mezzo, in quella che prosaicamente definiremmo esistenza, c’è la corsa. Che essa sia su due gambe o quattro ruote non ha importanza. Si corre a perdifiato verso la vittoria, la gloria effimera che non sazia nulla ma anzi fa aumentare la fame di affermazione. Oppure, nel disperato tentativo di raggiungerla, si incontra la morte, come illustrato nella disturbante sequenza della strage di Guidizzolo avvenuta il 12 maggio 1957 durante la XXIV edizione delle Mille Miglia, in cui la Ferrari guidata dallo spagnolo Alfonso de Portago forò un pneumatico, schiantandosi a grande velocità sulla folla assiepata causando undici morti.
Come in altre opere dirette da Mann – la memoria torna, ad esempio, all’altro biopic Nemico pubblico – Public Enemies (2009) – e forse più, aleggia su Ferrari lo spettro della fine. Quasi una riflessione spirituale sui modi in cui Enzo Ferrari (un ottimo, granitico, Adam Driver, abile a far emergere debolezze nascoste) dalle numerose tragedie vissute riesca a trovare la spinta per continuare quella che lui ha sempre visto al pari di una missione da portare a termine. E se l’epilogo sottolinea ancora una volta la ciclicità inevitabile di qualsiasi esistenza, da quella “normale” a quella straordinaria del protagonista, nondimeno non è possibile non sottolineare ancora una volta l’importanza della figura femminile nel cinema di Mann. Da Laura (una soffertissima Penélope Cruz), donna simbolicamente proiettata nel futuro capace di tenere testa all’illustre marito, a Lina Lardi, dolce ma ferma, in grado di assicurare stabilità in ambito di coppia; entrambe fungono da motore occulto della storia, assieme alle altre donne presenti, solo apparentemente in secondo piano, in Ferrari. Un’opera pienamente moderna anche e soprattutto per i modi in cui tratteggia la cornice del lungometraggio, dando il giusto risalto, in negativo, ad un giornalismo, ora come allora, spesso propenso a cercare scandali e capri espiatori a scapito del racconto di realtà ben più significative e dolorose.
Lascia dunque il tempo che trova la sterile discussione se Ferrari sia un’opera più o meno all’altezza delle precedenti, spesso autentici capolavori, nella filmografia di Michael Mann. Reca la sua firma e veicola pressoché in toto la sua segnaletica. Tanto basta per consigliare una visione del tutto incapace di svanire, dalla mente del pubblico, nell’attimo in cui lo schermo si spegne.
Daniele De Angelis
Assolutamente da rivedere la scena dell’incidente, ricostruita bene.