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Il Capofamiglia

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VOTO: 7

Sim sala bim

«Pensai a quella vecchia barzelletta, sapete, quella dove uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina”, e il dottore gli dice: “Perché non lo interna?”, e quello risponde: “E poi a me le uova chi me le fa?». Perfettamente coerente con lo spirito nonsense di questa battuta di Woody Allen, nel finale di Io e Annie, è il film Feathers dell’egiziano Omar El Zohairy, vincitore della Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2021. Il film poggia su un apparente paradosso, utilizzare un pretesto narrativo surrealista per descrivere impietosamente la realtà sociale in avanzato degrado del paese, un elemento alla Buñuel, oltre che alla Allen, per innescare un meccanismo d’osservazione neorealista.

Feathers (per l’uscita italiana Il Capofamiglia) è incentrato sulla vicenda di un capofamiglia autoritario che viene trasformato in un pollo da un prestigiatore chiamato per animare la festa di compleanno di uno dei figli. Un illusionista pasticcione che alla fine non riesce più a riconvertire il pennuto nell’uomo di partenza. La moglie, sempre dedita ad accudire tutta la famiglia, si trova ora in stato di necessità, di trovare un lavoro per poter mantenere sé e i tre figli, uno dei quali ancora in fasce, oltre che al marito pollo. Ma si trova davanti a un calvario, nella barriera di una società arretrata, patriarcale, dove non viene accettato di dar lavoro a una donna in quanto tale. Un pretesto narrativo grottesco molto debitore, come si diceva, di Woody Allen, si pensi all’analogia con il suo episodio Edipo relitto del film collettivo New York Stories, dove l’opprimente madre del protagonista scompare sempre per un errore di un prestigiatore. Possiamo peraltro immaginare una simile soddisfazione inconscia della protagonista di Feathers, pur nel suo volto impassibile, per essersi sbarazzata di un marito così opprimente.

La protagonista sprofonda in un golgota, dovendo mantenere la prole, con i debiti lasciati dal marito, e un mondo del lavoro che le chiude le porte in quanto donna. Cerca di arrangiarsi divincolandosi tra chi cerca di molestarla, e trovando lavori umili come in un macello, o come parte della servitù in una grande villa di ricchi, o per una sorta di boss della malavita, e infine trasformando la sua casa in una pecie di para-ospedale dove accudisce persone malate. Omar El Zohairy realizza una pesante satira di un paese dove ancora vige un sistema patriarcale, dove la condizione femminile è pessima, dove divampa la corruzione e si mantiene un grande divario tra le fasce povere della popolazione e le élite ricche.
Il regista usa un’estetica della sozzura che ci fa sprofondare nella disperazione al pari della protagonista, spesso silente che affronta con dignità femminile le avversità. Il film è pieno di edifici e interni quanto mai fatiscenti, la casa dei protagonisti, come il commissariato di polizia o la clinica veterinaria con i pavimenti allagati. La villa dei ricchi, con piscina, è per contrasto, bianca e asettica. Ci sono poi le scene di taglio della carne macellata, in cui si asporta la lingua da una testa di mucca, le piaghe da decubito dei malati, cui la donna cambia le garze, che hanno orinato a letto. In generale Feathers funziona con una regressione allo stato di animalità, di cui quella del marito è solo quella che si manifesta, fisicamente e magicamente, nel pollo. Un pennuto che peraltro sembra inizialmente arrabbiato, come se fosse cosciente della sua trasformazione, proprio come i marinai trasformati in maiali dalla maga Circe.

Per contrasto vie di fuga, da questa miseria, sono immagini e oggetti kitsch di derivazione occidentale: la fontana trash, le luci stroboscopiche anni Settanta, i fiori che sbocciano in televisione, la coca cola che beve la protagonista, la musica di Love Story, stucchevole film americano, deformata come da un carillon, le canzoni da disco dance. Omar El Zohairy racconta tutto con una narrazione prevalentemente visiva, dove il procedere degli eventi si comprende senza spiegazioni né didascalie. Tutto ciò, unitamente a quella silenziosità della protagonista, ci porta dalle parti di Tati, un Tati sempre grottesco ma virato alla desolazione più cupa.

Giampiero Raganelli

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