L’assolo perfetto di un regista-batterista
In seguito all’imbarazzante notte degli Oscar 2017, l’interesse per La La Land è destinato a non affievolirsi, anzi, da quella notte fatale hanno beneficiato sia il vincitore effettivo Moonlight che quello solo annunciato, appunto La La Land, talmente favorito che la sua sconfitta ha accresciuto la discussione su di esso. Sceso il polverone mediatico, a rimanere di questa stagione cinematografica tra le altre cose è certamente l’assunzione di Damien Chazelle a maestro del cinema contemporaneo, e non più semplice enfant prodige. Sembra ora opportuno, dunque, rivedere e rivalutare Whiplash, il capolavoro del 2014 che lo ha imposto all’attenzione dei più (precedentemente aveva diretto solamente Guy and Madeline on a Park Bench, un musical indipendente del 2009, e il corto omonimo da cui poi ha tratto Whiplash).
Poche settimane fa è comparso su Twitter un breve video registrato al cellulare (https://www.youtube.com/watch?v=tXwHkYEJ1SU) sul set di La La Land mentre si stava girando la scena di una performance jazz di Ryan Gosling e della sua band. Nel video Ari Robbins, cameraman, regge la telecamera, mentre dietro di lui Chazelle attende, appostato, di toccargli ripetutamente la spalla per dargli segno di virare fulmineamente la camera da un lato all’altro della stanza – il cosiddetto effetto whip pan. Per i fan dei “dietro le quinte” dev’essere elettrizzante vedere la molto concreta realizzazione di questo effetto visivo, il più ricorrente nel cinema di Chazelle. Questo momento di pura direzione registica, catturato da quel cellulare, evidenzia in che modo il ritmo influenzi Chazelle, peraltro egli stesso batterista; ad ogni tocco della spalla, il regista sembra quasi un jazzista, che aspetta l’attimo (musicale) giusto per “ribaltare” l’inquadratura. In Whiplash ancora più che in La La Land il ritmo è tutto, sia internamente alla storia (il protagonista suona la batteria) che esternamente ad essa, ovvero per quanto riguarda il pacing generale del film. A qualche anno di distanza, uno dei pregi maggiori di Whiplash risulta ancora il susseguirsi ritmico e incessante, perfettamente bilanciato, degli avvenimenti, e l’impressione rimane anche a chi il film lo conosce già a memoria… come chi riascolta un pezzo jazz che conosce a memoria non si annoierà mai di sentire il pianista colpire la stessa nota o il batterista battere sempre nello stesso punto. Il film, come un lungo assolo di batteria, è sempre costretto a mantenere una certa struttura ritmica, una regolarità nelle battute; e Chazelle, batterista di questo assolo, talvolta batte fortissimo, come nelle scene di abuso psicologico e fisico da parte di Fletcher, ma può anche andarci più leggero, ad esempio nelle scene più riflessive come quelle che seguono l’abbandono del conservatorio da parte di Andrew. Ma il ritmo viene sempre mantenuto, e almeno inconsciamente questo non sfugge allo spettatore; se la visione di Whiplash costringe a stare in uno stato di perenne tensione, il motivo è che si sta ascoltando un assolo inesorabile che deve ancora finire. Curioso che Whiplash sia uscito lo stesso mese di Birdman, un altro film basato su ritmi incessanti (l’infinito piano sequenza) e sulla batteria (quasi l’unico strumento della colonna sonora). A favorire questa sensazione da “edge of your seat” sono certo i whip pan di cui abbiamo detto, a memoria uno dei tentativi più riusciti di catturare l’euforia da performance musicale. Notevoli anche i primi piani: i close-up di Chazelle inquadrano un frammento dell’estasi musicale sul volto dei musicisti, in particolare gli sforzi immani che deformano il viso di Andrew, e la preparazione dei musicisti prima di suonare. I movimenti di camera, anche i più lenti (come quello che accompagna il gesto d’avvio di Fletcher prima delle performance) creano un’insostenibile tensione. Questa tensione, e il terribile gioco psicologico di Fletcher, hanno permesso a Chazelle di identificare Whiplash come una sorta di thriller, e non un certo un film musicale convenzionale.
I critici di Chazelle, come Richard Brody del New Yorker, gli hanno imputato di avere una visione parziale e troppo “bianca” del jazz. Cosa c’entrano lo studente e l’insegnante d’accademia (come poi il pianista dagli ingenui ideali di La La Land), con l’essenza primordiale, e dunque “nera”, del jazz? Queste critiche risultano piuttosto sterili: i film di Chazelle sono ambientati in un momento storico in cui la posizione del jazz come forma musicale popolare è a dir poco in discussione. Che c’è di sbagliato da parte sua a voler caratterizzare i propri eroi come figli adottivi, se si vuole anche illegittimi, del cosiddetto “vero jazz”, quello classico? Far difendere il jazz da un ragazzo bianco nell’ambiente accademico, o da un idealista a Los Angeles, è un ammirevole esercizio di realismo. Il tentativo dei critici di Chazelle di aiutare il mondo afro-americano a riappropriarsi del jazz (ironico poi come molti di questi critici siano a loro volta bianchi, fan del genere nella stessa identica maniera in cui lo è Ryan Gosling in La La Land) si lasciano passare sotto gli occhi il vero cuore tematico di Whiplash. Chazelle è estremamente interessato ai concetti dell’ambizione artistica e della ricerca del successo, aspetti complementari ma in parte discordanti: Andrew deve diventare un grande del jazz, il Buddy Rich di questa generazione, e l’incontro con Fletcher è per lui fatale. Il personaggio di J.K. Simmons in tal senso è molto più di una specie di Sergente Hartman del jazz, come fin troppi critici si erano affrettati a definirlo. Egli è più una specie di terribile angelo dell’arte, un mostro asservito alla causa della musica immortale e alla formazione dei migliori talenti che sia riuscito a trovare. Non ha paura di perdere ogni straccio di umanità rimastagli, pur di completare la sua missione, e Andrew possiede una complementare smania di raggiungere il divino musicale… Fino agli ultimi minuti del film, sembra che il loro incontro si sia rivelato solo lo scontro tra una personalità troppo immatura e un’altra troppo esigente e abusiva. Ma il finale investe la storia d’improvviso, e la rivolta completamente al ritmo dell’indemoniato assolo di Andrew, sfuggendo ad ogni interpretazione tradizionale della risoluzione conclusiva dei film: non c’è un vinto o un vincitore, solo il sacrificio di due uomini per raggiungere un obiettivo comune, la grandezza musicale. La parola “sacrificio” è fondamentale, perché Andrew si dimostra chiaramente disponibile a portare il proprio sacrificio all’estremo pur di farcela, ma sacrificio è anche, almeno dal suo punto di vista, quello attuato da Fletcher: come spiega nel suo discorso al jazz club, egli ha dato tutto sé stesso alla causa di formare una nuova leggenda musicale, e si è quasi annullato in quanto a personalità pur di darsi a quest’opera. Non a caso egli è un personaggio grandioso, interpretato perfettamente da J.K. Simmons, ma una persona quasi intangibile, eccetto forse durante il commosso omaggio al suo ex-allievo deceduto, anche se poi si scoprirà il vero motivo della sua morte, ovvero la depressione nata proprio mentre Fletcher era suo insegnante; e quindi anche questo momento di commozione assume toni ambigui. Fletcher è caratterizzato solo dall’impegno estremo del suo lavoro e dal metodo non ortodosso con cui lo applica. L’unico gesto che compie davvero per ragioni personali è l’umiliazione finale di Andrew, un gesto di pura vendetta; e solo dopo questo gesto meschino il giovane reagisce, umiliando a sua volta Fletcher con un assolo praticamente ineccepibile… ed entrambi gli umiliati, forse consapevolmente, si stanno in quel momento donando alla Musica come suprema realizzazione del musicista, concezione quasi megalomaniaca, che però hanno condiviso per tutto il film. Tanto che il momento più significativo del film non avviene durante le sfuriate di Fletcher, o negli esercizi sporchi di sangue che Andrew si impone, ma nella tacita approvazione che l’ex-maestro dà alla performance finale dell’ex-allievo, aiutandolo a costruire al meglio l’assolo e arrivando addirittura a sistemargli un piatto spostatosi mentre suonava, un momento da vera pelle d’oca. Né Andrew né Fletcher raggiungono nel finale la conclusione di un arco narrativo, non sembrano cambiati abbastanza, però con la loro testardaggine hanno trovato il momento musicale perfetto che testardamente cercavano.
Chazelle costruisce un cinema inusuale, anche quando omaggia topoi estremamente classici, perché sacrifica le modalità convenzionali di costruire una storia per favorire una sensibilità propria; in Whiplash ad essere sacrificata è la likeability del protagonista e il tipico ciclo di progressi personali che un personaggio deve compiere per diventare una persona migliore entro fine film (Andrew non diventa una persona migliore, al massimo un batterista migliore), mentre la sensibilità propria che applica è quella della musica come esercizio incessante, soddisfacente quanto cannibale, vorace della vita di chi la ama davvero. La visione di Chazelle è oggettiva e priva di compromessi, quasi “antipatica” nel suo evitare di scendere a patti con lo spettatore riguardo scelte che sembrerebbero più corrette in senso tradizionale (come poteva essere quella di mostrare un Andrew più appassionato che ossessionato, il tipico bravo ragazzo con un sogno da realizzare); ma questa coerenza, unita ad una proprietà dei mezzi tecnici innegabile, è la stessa ragione per cui Chazelle è oggi il più promettente giovane regista americano. Ora bisogna aspettarlo al varco, mettendogli la pressione che è giusto mettere solo ai Grandi e a chi Grande può diventarlo, e scoprire se il suo biopic su Neil Armstrong (uscita prevista 2018) confermerà il suo talento, anche perché il jazz, finora il suo pezzo forte, occuperà per forza in questo progetto un ruolo marginale, o almeno così sembrerebbe. Da Chazelle possiamo aspettarci di tutto.
Riccardo Basso