Come in guerra
«Con Whiplash volevo fare un film sulla musica che sembrasse, però, un film di guerra o di gangster, dove gli strumenti musicali sostituissero le armi, le parole fossero minacciose come pistole e l’azione si sviluppasse non sul campo di battaglia ma nella sala prove di una scuola o su un palco». A parlare è Damien Chazelle, nelle cui note di regia che accompagnano la sua folgorante opera seconda c’è, oltre al carico di intenzioni, tutta l’essenza di un film capace di folgorare chiunque, anche lo spettatore più esigente e con la puzza sotto il naso. Transitata in quel di Cannes, dopo la tappa alla 32esima edizione del Torino Film Festival nella sezione “Festa Mobile”, la pellicola scritta e diretta dal regista statunitense approderà per fortuna anche nelle sale nostrane nel 2015 con Warner Bros, dove siamo sicuri conquisterà il pubblico grazie alla potenza drammaturgica, tecnica e interpretativa, della quale è dotata.
Come in ogni conflitto bellico, anche qui il sangue scorre, ma senza morti e solo sui piatti o le bacchette di Andrew Neyman, che nonostante la giovane età, si è posto un obiettivo molto ambizioso: diventare il miglior batterista jazz del prestigioso conservatorio di Manhattan a cui è iscritto, in modo da vedere riconosciuto il suo talento. A pesare su di lui i fallimenti che hanno segnato la carriera di scrittore del padre. Una notte, mentre è intento a provare, viene scoperto da Terence Fletcher, docente conosciuto sia per l’abilità nell’insegnamento sia per i metodi poco ortodossi. Per Andrew mettersi alla prova con Fletcher rappresenta un’occasione imperdibile per dimostrare le sue capacità. Ma le pressioni esercitate su di lui dall’esigente insegnante, unite al desiderio maniacale del ragazzo di affermarsi, metteranno a dura prova lo studente.
Questo fa di Whiplash un film di “guerra” in senso metaforico; una guerra che il protagonista affronta dentro e fuori di sé, contro i fantasmi che lo tormentano e gli ostacoli che la vita gli pone davanti. Trattasi di materia drammaturgica e di tematiche che alimentano la scrittura di un’opera che eleva il classico romanzo di formazione a qualcosa di più, qualcosa alla quale manca solo più incisività nella parte centrale per essere perfetta (qualche digressione che stona nell’economia globale del racconto). Dramma umano, paura, cinismo e ossessione, si impadroniscono del plot e dei personaggi che lo animano, quest’ultimi disegnati con sopraffina introspezione psicologica.
Musica e parole sono il pane di cui si ciba un’operazione di straordinaria potenza e intensità, capace di trasmettere alla platea un flusso ininterrotto di emozioni, sensazioni e spunti di riflessione, che sviluppa un crescendo di rara forza catartica. Ciò diventa possibile grazie al solido connubio tra la scrittura e la messa in quadro, che trova l’apice in un epilogo da standing ovation in cui ciascun elemento raggiunge la sua massima espressione. Un apice che è solo la punta di diamante di una serie di picchi emotivi (vedi la scena della battaglia a tre per la scelta del batterista titolare) che costellano un racconto che non può non conquistare per il suo ritmo indiavolato, per una colonna sonora da brividi, per una regia che fa della varietà delle soluzioni visive la sua arma in più, per un montaggio a battuta da manuale, ma soprattutto per la sontuosa interpretazione di un J.K. Simmons in stato di grazia nel ruolo di Fletcher, per il quale ci sentiamo di pronosticare una meritatissima candidatura alla prossima notte degli Oscar.
Francesco Del Grosso