Il corpo segnato
“A Taste of Ink è un urlo. Un urlo di rabbia e d’amore. Un film edipico su una rivalità padre-figlio che osa sovrapporre il suo lato oscuro alla sua comica assurdità. Una corsa verso la vita adulta in una società di anime perdute, dove una gioventù americanizzata girovaga tra i meandri delle ultime mode. Uno sguardo a una Parigi diversa, che ci porta a scoprire una cultura alternativa ma che si nutre di sponsor, e che non si assume alcun rischio, nonostante tutti quei tatuaggi e quella musica assordante.”
In queste poche ma significative righe estrapolate dalle note di regia di A Taste of Ink, Morgan Simon ha provato a riassumere l’essenza e gli intenti della sua pluri-premiata opera prima, già vincitrice di numerosi riconoscimenti nel circuito festivaliero internazionale (su tutti quello al regista esordiente al San Sebastián International Film Festival 2016), ai quali si vanno ad aggiungere quelli appena ottenuti alla 18esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, ossia il Premio Speciale della Giuria e il Premio Agiscuola.
Le note di regia ci risparmiano l’incombenza di elencare uno ad uno i temi del film, ma non di individuare quale sia il problema che affligge l’opera, ossia la difficile coesistenza dei temi stessi all’interno dello script. Il tutto va a confluire in un racconto dove si fa fatica a capire quale sia la vena drammaturgica principale incaricata di pompare il sangue al racconto. A Taste of Ink è contemporaneamente il capitolo di un romanzo di formazione, uno scontro generazionale tra un padre e un figlio, un ritratto parziale di una gioventù sempre più smarrita, un ménage a trois non proprio riuscito e anche un ritratto di un certo ambiente musicale. Tutto ciò crea un magma drammaturgico incandescente che Simon non riesce sempre a contenere e a indirizzare.
La trama è incentrata su Vincent, che non è ancora arrivato a un terzo della sua vita ma si è già tatuato metà del corpo e inasprito la sua voce con un gruppo post-hardcore. Dalla morte di sua madre, si divide tra un lavoro di operaio che non lo entusiasma e un padre pescivendolo che tenta di ricostruirsi la vita con una ragazza più giovane. E questo lo fa star male…
Il giovane cineasta parigino firma un plot estremamente lineare e drammaturgicamente asciutto, nel quale non trovano mai spazio stratificazioni o particolari sotto testi. Tutto è alla luce del giorno e non c’è bisogno di scavare nello script per andare a scovare significati e significanti, metafore o intricati intecci di esistenze. Di fatto, la narrazione procede per forza di inerzia, attraverso una successione di eventi che, allineandosi uno dopo l’altro, danno origine al racconto nella sua interezza. In poche parole, ogni scena fa avanzare il film, portandolo fino alla fine. Tale modus operandi facilità la fruizione da parte dello spettatore di turno, che si troverà davanti a una successione di linee narrative molto semplici. Il che permette di andare molto più in profondità nelle relazioni tra i personaggi e nei sentimenti. In questo modo la storia e le ambientazioni diventano solamente le cornici che accolgono le suddette linee e le one line dei singoli personaggi. A Taste of Ink è di quei film che mettono prima di tutto il personaggio, la sua costruzione e la sua evoluzione. Questo è senza ombra di dubbio il cuore pulsante dell’opera e il suo fattore più riuscito; ciò che ci ha convinto, insieme al lavoro davanti e dietro la macchina da presa, a far galleggiare il nostro giudizio sulla linea della sufficienza, nonostante le difficoltà sopraelencate
Francesco Del Grosso