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Birdman

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VOTO: 8.5

Who Am I?

Bisogna avere il coraggio di rischiare ed è questo quello che fa Alejandro González Iñárritu con Birdman or the unexpected virtue of ignorance, come recita il titolo integrale. Continuando sull’onda dell’edizione 2013 inaugurata con un regista messicano (Alfonso Cuarón con Gravity), l’ultimo lungometraggio di Iñárritu è stato scelto come film di apertura della 71^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il regista di 21 grammi ci aveva abituato a toni fortemente drammatici in una costruzione drammaturgica spesso sostenuta da una solida sceneggiatura e ulteriormente determinata dal montaggio (esemplificativo, tra tutti, Babel). In Birdman riparte dalla fase di scrittura per creare i presupposti per un nuovo stile che sia a servizio della storia ed è così che il cinema si sposa con il teatro per parlarci di vita e lo fa in un modo tutto personale (che forse lo stesso cineasta ha scoperto grazie e durante la realizzazione della pellicola). Uscendo dalla sua zona di “comfort”, si incammina in un nuovo genere e in uno stile narrativo diverso da quelli precedenti dimostrando di sapersi calare ancora una volta nei tempi in cui viviamo (vedi i riferimenti ai social network) e di poter parlare di un attore sul viale del tramonto cercando una propria strada di visione e con cui interrogarci uno ad uno, chissà, forse partendo proprio da se stesso.
I primi minuti suggeriscono, grazie a Raymond Carver (la sua anima e la sua opera ci accompagneranno per tutto il film), una dichiarazione di intenti e uno dei punti che “tormenta” il nostro protagonista, Riggan Thomson (un Michael Keaton in stato di grazia).
«E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi amato sulla terra» (“Ultimo frammento” di R. Carver). Chi non ha mai provato questo desiderio?
Sin da subito ci immergiamo così nella mente di un attore che è stato sulla cresta dell’onda per aver interpretato un supereroe, poi, proprio nell’ottica sempre più diffusa che nessuno è insostituibile, tutto è finito in una bolla di sapone, a parte i suoi desideri di fama e di sentirsi amato. L’ego ha assunto le sembianze di Birdman, pronto a ricordargli cosa è stato (e non chi) e cosa potrebbe portarlo ancora al potere (inteso come gloria e come guadagno); ma Riggan vuole dimostrare a se stesso e agli altri che, al di là di un costume e degli effetti speciali, sa recitare ed è per questo che si “rifugia” in teatro, luogo che fa calare tutte le maschere. Dal camerino si passa al palco, basta un piano sequenza e il “confine” tra realtà e rappresentazione si dissolve, movimenti fluidi e morbidi della macchina da presa esplorano le vite di coloro che inscenano i personaggi e il dietro le quinte di quello che solitamente vediamo dalla platea. In un montaggio che si “nasconde” per far posto alla grammatica del piano sequenza, il risultato è un continuum tra dentro e fuori dal set, la macchina da presa segue gli interpreti facendo talvolta una danza a 360° intorno a loro, ne fa la radiografia dei sentimenti, lasciando allo spettatore la suggestione di ombre ancora da esplorare.
In Babel il regista messicano ci aveva dimostrato di avere una forte consapevolezza della dimensione spaziale, proponendoci la dislocazione della verticalità dopo l’11 settembre (e lì era primaria la chiave della frammentarietà), qui dimostra ancora una volta di padroneggiare l’unità spazio-temporale in funzione dell’idea che lo spazio è determinato da chi lo abita senza elementi che separino, anzi son lì pronti ad espanderlo e a rifletterlo. A rafforzare questa rappresentazione corre in aiuto il teatro: una scena se non è abitata dagli attori è vuota, un paesaggio – seppur con significati diversi – può avere un senso a sé. La black comedy contrappone con humor nero il popolare entertainment dei “cinecomic” con il livello considerato più alto della letteratura e del teatro. Ossessionato dalla voglia di rivalsa, Riggan sceglie di rischiare la sua vita sotto le luci di Broadway con un adattamento di un testo di Carver.
In una sceneggiatura audace, non poteva mancare una bella frecciata al mondo della critica – rappresentata dalla guru del Times, pronta a stroncare ancor prima di vedere la pièce, guidata da un pregiudizio che spesso dilaga nell’ambiente e che ancora separa attori di serie A (quelli teatrali) da quelli di serie B (del cinema o ancor più della tv). Ma, come si suol dire, spesso anche i più “duri” possono essere sorpresi dal colpo di scena.
Una segnalazione va alla martellante colonna sonora costituita da una batteria jazz che talvolta sembra prepararci al prossimo “numero” che vedremo e spesso ci fa avvertire le pulsazioni del nostro protagonista.
Iñárritu supportato da un ottimo cast, dà così corpo a una dimensione sia metateatrale che metacinematografica – un passo non facile da compiere, ma che si può dire più che discretamente riuscito visti anche gli interrogativi che ci lascia.

Maria Lucia Tangorra

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