Libera di scegliere
Durante la 78° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ha fatto molto discutere il lungometraggio di Audrey Diwan, La scelta di Anne, che si è aggiudicato il Leone d’Oro e che ha trattato un tema scottante come l’aborto. Sull’ondata di tale evento, dunque, non si è fatta attendere la “risposta statunitense”. Ed essa è arrivata già alla 72° edizione del Festival di Berlino, dove la regista e sceneggiatrice Phyllis Nagy ha presentato in concorso Call Jane, che di tale tema ha fatto, appunto, la sua colonna portante, mettendo in scena un periodo cruciale della storia americana.
Ci troviamo, dunque, nel 1968. Joy (impersonata da Elizabeth Banks) è sposata e ha una figlia di quindici anni. Dopo essere rimasta nuovamente incinta, il medico la informa che portare avanti la gravidanza comporterebbe un grosso rischio per la sua salute. L’aborto terapeutico, tuttavia, non è ancora minimamente contemplato dalla legge e la donna è costretta a rivolgersi a una sorta di associazione chiamata “Call Jane”, appunto, a cui fa capo Virginia (Sigourney Weaver) e che si occupa di aiutare donne nella sua stessa situazione.
La storia di Joy, dunque, è la storia di tante altre donne che, come lei, hanno dovuto affrontare una situazione delicata, senza avere la legge dalla propria parte. La regista, dal canto suo, ha raccontato per immagini un importante capitolo della storia degli Stati Uniti e mondiale, una fase di transizione non priva di intoppi di ogni genere. Al centro del discorso: il personaggio di Joy, una casalinga che, dopo tanti anni, ha finalmente trovato una propria missione nella vita, a scapito della società che la vorrebbe sempre in casa a badare a suo marito e a sua figlia.
Call Jane, dunque, è un urlo liberatorio, un inno alla vita e alla libertà di scelta. Questo è un dato di fatto. Eppure, di fianco a una messa in scena complessivamente pulita, di fianco alle ottime performance di Elizabeth Banks e di Sigourney Weaver, di fianco a un’ottima ricostruzione della provincia statunitense degli anni Sessanta, v’è comunque qualcosa che non convince del tutto. E ciò, di fatto, è rappresentato proprio dalla sceneggiatura e dal tono conferito all’intero lungometraggio.
Questa opera seconda di Phyllis Nagy, infatti, nell’insieme sembra mancare di personalità, calca eccessivamente la mano – perdendo di autenticità – su determinati cliché, che vorrebbero ogni figura maschile priva di spina dorsale, e somigliando come una goccia d’acqua alle numerose pellicole statunitensi realizzate principalmente per “strizzare l’occhio” all’Academy, trattando spesso temi attuali – ma senza andare realmente a fondo o scavare come si deve nell’intimo dei protagonisti – e puntando tutto su una performance attoriale, a scapito di una storia (in questo caso, la storia personale di Joy e della sua famiglia) che, per certi versi, finisce irrimediabilmente per rivelarsi pericolosamente prevedibile. Se, dunque, pensiamo che il presente Call Jane stia concorrendo per il tanto ambito Orso d’Oro, ci rendiamo conto che di fianco ad altre notevoli pellicole della selezione berlinese, possa facilmente apparire come un “pesce fuor d’acqua”. Un film dalla confezione sì gradevole, ma che fa maldestramente il verso a quanto realizzato in passato e che non riesce proprio a liberarsi da determinati diktat di gran parte della produzione hollywoodiana prettamente mainstream.
Marina Pavido