La fonte dell’eterna giovinezza
La Fonte della giovinezza è una leggendaria sorgente simbolo d’immortalità che appare nella mitologia medievale e classica di molte culture. Secondo la leggenda l’acqua della fonte, le cui sorgenti si troverebbero nel giardino dell’Eden, guarisce dalla malattia e ringiovanisce chi ci si bagna. Impossibile contare il numero di volte che la letteratura e il cinema di genere l’hanno chiamata in causa, al fine di rileggere metaforicamente e declinare in chiave fanta-horror l’accecante desiderio dell’essere umano di entrare in possesso dell’elisir di eterna giovinezza. Scopo per il quale le figure coinvolte hanno dimostrato di essere pronte a tutto, persino a vendere l’anima al Diavolo o a violare le leggi non scritte della natura. E tutte le volte non è mai andata bene, con migliaia di romanzi e di film che hanno raccontato e mostrato le conseguenze di così nefasti e folli tentativi di manipolazione.
Gli ultimi in ordine di tempo sono quelli mostrati senza mezze misure e in maniera piuttosto estrema in Breeder, l’opera seconda di Jens Dahl, presentata nella sezione “Le stanze di Rol” del 38° Torino Film Festival. Il cineasta danese, noto al pubblico e agli addetti ai lavori per la scrittura di sceneggiature di pellicole come Pusher – L’inizio di Nicolas Winding Refn e per la regia di serie televisive scandinave di successo, ci porta nei sotterranei infernali di una rinomata azienda di integratori gestita da una donna ambiziosa e spietata, che sta selezionando (e rapendo) giovani donne da inserire in un progetto sperimentale di bio-hacking. L’obiettivo, attraverso la modificazione del DNA, trovare il modo di offrire ai clienti dell’azienda la possibilità di fermare il loro naturale processo d’invecchiamento. Indagando su questi loschi traffici, la giovane e determinata Mia finisce per restare intrappolata in questa specie di perversa “fabbrica di esseri umani”. Quando, fra le persone che incontra, comincia a scorgere volti che le sono familiari, si accorge di non essere sola. Riuscirà a trovare la forza per sfuggire a questo incubo?
Ovviamente non saremo noi a dirvi se Mia Lindberg, interpretata con grande presenza emotiva e fisica da una convincente Sara Hjort Ditlevsen, riuscirà a riportare o no la pelle sana e salva a casa. Una cosa però è certa: le conseguenze per lei e per le altre “cavie umane” che come lei sono finite nelle mani dei sadici squilibrati di turno che giocano a fare Dio in nome del progredire della scienza e di facili guadagni, saranno dure da sopportare, non solo per le dirette interessare, ma anche per gli spettatori che decideranno di confrontarsi faccia a faccia con un torture-porn consapevole e senza compromessi. Dahl, infatti, svuota il plot e la timeline da qualsiasi implicazione socio-politica come nel Frontiers di Xavier Gens, ma non rinuncia però a puntare il dito contro gli usi distorti e le manipolazioni genetiche. Per farlo, passa attraverso una riflessione cruda e senza fronzoli su un dilemma di fondo: se viviamo più a lungo, ci attaccheremo anche più a lungo al nostro potere e al nostro privilegio, non lasciando alcuno spazio alle generazioni successive. Questo dilemma ha fatto nascere l’idea di Breeder, trasformata poi nella storia di una donna che combatte contro le persone al potere, che letteralmente consumano la propria prole per tornare giovani.
Questo per dire che, nonostante si tratti di un horror dalle venature mistery caratterizzato da dosaggi più o meno elevati di violenza efferata (le scene del parto e della marchiatura a fuoco su tutte), quello firmato dal cineasta danese non rappresenta un torture-porn fine a se stesso, caratterizzato da una “macelleria” in stile Hostel come il plot e la messa in quadro feroci potrebbero suggerire. Al contrario, si assiste all’esplosione di un istinto di sopravvivenza di carattere animalesco e primordiale, in cui la scrittura e la sua trasposizione prendono la cosa piuttosto seriamente, senza sfociare mai in una dimensione “ludica” come si è soliti assistere in certe derive gore o in divertissement sadici che puntano unicamente a rivoltare lo stomaco del fruitore.
Insomma, in Breeder c’è molta più sostanza di quanto si potrebbe immaginare, basta saperla intercettare nei meandri di un film ansiogeno e claustrofobico, che sprizza sangue e acidi (quelli della fotografia di Nicolai Lok Hansen) da tutti i frame. Vedere per credere.
Francesco Del Grosso