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Belfast

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VOTO: 8

Un’infanzia nordirlandese

Si dice che sia l’insieme dei ricordi, metabolizzati ed in qualche modo elaborati, a creare l’essenza di ogni individuo. Possiamo dunque comprendere, a distanza di oltre cinquant’anni, cosa deve aver rappresentato trascorrere la propria infanzia in quel di Belfast, la capitale nordirlandese, agli albori dei famigerati Troubles, ovvero il conflitto intestino tra protestanti e cattolici che in seguito ebbe i tragici risvolti consegnati alla Storia. Belfast di Kenneth Branagh racconta di questo e di molto altro. Di una città vitale ben al di là delle problematiche che vi allignano. Di un rapporto d’amore capace di andare assolutamente oltre la normale percezione di un senso di appartenenza.
1969. Il piccolo Buddy – alter ego assai somigliante del regista – ha nove anni. Vive una realtà complicata, anche per le ristrettezze economiche, filtrata però dalla magia dello sguardo infantile. Un vissuto che Branagh si sforza al massimo di rendere cinema, incastonandolo in un prezioso bianco e nero capace di trasportare la platea in un’epoca passata. Come accadeva nel bellissimo e purtroppo semi dimenticato Anni ’40 (Hope and Glory, 1987) di John Boorman – opera che certamente Branagh deve conoscere molto bene – il dramma si trasforma in gioco, ricordo idealizzato di un’età irripetibile. Nel lungometraggio di Boorman i bombardamenti su Londra nel corso della Seconda Guerra Mondiale; nel film di Branagh i tumulti scaturiti dalle differenze religiose cui si faceva cenno poc’anzi. Un bambino come Buddy si trova così, senza quasi rendersene appieno conto, al centro di un duplice conflitto dilaniante: quello tra i propri concittadini e quello, molto più intimo, riguardante la sua famiglia, con il padre a spingere per un trasferimento in Inghilterra e la madre a cercare di mantenere un contatto stretto con le proprie radici.
Belfast – presentato alla Festa del Cinema di Roma 2021 dopo i trionfi ottenuti al Festival di Toronto – è certamente un’ode sentimentale nei confronti di una città tentacolare, capace di avvolgere anche e soprattutto nelle sue contraddizioni. Un’opera dedicata, come suggerisce la didascalia finale, a chi è rimasto e a coloro che sono partiti, consapevoli di non poter mai dimenticare. Branagh, ultrasessantenne ormai da decenni icona artistica di livello internazionale, ha lasciato Belfast per intraprendere il proprio percorso senza che il cuore abbandonasse realmente la città natale. Riuscendo a trasmettere agli spettatori quel senso assieme gioioso e malinconico derivante da un passato la cui straordinaria unicità è fattore comune per ognuno. L’unico dubbio che suscita una visione comunque imprescindibile anche per merito di un cast da elogiare in blocco (lo straordinario Jude Hill nel ruolo di Buddy, Catriona Balfe e Jamie Dornan in quello dei genitori), oltre a certi ammiccamenti registici di un Branagh talvolta un po’ narcisista nella messa in scena come spesso gli capita – vedere ad esempio il confronto “western” sulle note di Mezzogiorno di fuoco – è quello se Belfast riesca ad esulare la dimensione del ricordo personale per approdare ad un concetto di metafora universale. Quesito che lasciamo più che volentieri alla sensibilità di ogni singolo spettatore del film, come è del resto giusto che sia da parte di ogni opera di levatura superiore. Tuttavia il regalo più bello Branagh, ovviamente anche nelle vesti di sceneggiatore, lo recapita al pubblico nella descrizione dei due nonni (magistralmente, neanche a dirlo, interpretati da Judi Dench e Ciarán Hinds), autentici custodi della memoria di un momento così essenziale da superare anche agli esigui confini tra la vita fisica e ciò che verrà dopo: un breve istante nell’epilogo, immortalato da Branagh al pari di un vero maestro della Settima Arte, che segna l’addio di Buddy alla spensieratezza infantile ed il conseguente proiettarsi verso un’età più matura. Osservato attraverso lo sguardo amorevole di chi rimane a salvaguardare l’indissolubile ricordo di quel periodo meravigliosamente unico a prescindere. Impossibile davvero non ritrovarsi con gli occhi umidi, a contemplare uno schermo ormai vuoto anche oltre i titoli di coda di Belfast.

Daniele De Angelis

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