Ordinarie contaminazioni
Qualunque sia il giudizio sulla ripartenza a ritroso della saga di Alien a firma Ridley Scott – comprendente Prometheus (2012) e questo Alien: Covenant – essa meriterebbe più un saggio d’approfondimento, data la propria complessità, che una semplice recensione. L’idea alla base di tutto è indubbiamente forte e suggestiva: il tentativo di elevare un meraviglioso franchise nato come prodotto di genere sino alle vette della fantascienza “alta”, quella capace di riflettere sui massimi sistemi della creazione universale, sia umana che aliena. Se le intelligenti e spietate creature ovipare (sui generis) sono state davvero frutto di un errore umano – come spiegato in Prometheus e ribadito in Alien: Covenant – non sarà che pure la nostra razza sia nata a seguito dello sbaglio ferale di una qualche entità superiore? Questioni di una certa rilevanza che rimanevano sospese nell’opera precedente e che continuano ad aleggiare anche in quest’ultima fatica dell’ottantenne Ridley Scott, ma che appaiono, mai come in questa circostanza, inserite a forza in un contesto, almeno in partenza, estraneo.
Quasi quarant’anni sono trascorsi dall’Alien primigenio. Tempo che non scorre senza lasciare traccia, ovviamente. Ridley Scott, all’epoca acuto sperimentatore in cerca di un suo possibile percorso autoriale, innestava nella fantascienza venata di orrore una perfezione formale derivante dalla scuola pubblicitaria di provenienza. Con risultati, per l’epoca, a dir poco deflagranti. Alien non cercava null’altro che essere un efficace film di suspense, claustrofobico al punto giusto per caricare di adrenalina e sgomento spettatori di ogni età; caricandosi poi di tutta una serie di chiavi di lettura probabilmente non tutte volute nemmeno dagli autori, ma che ne hanno fatto il classico che sempre rimarrà. Sempre di genere, però. O al limite transgenere, ma comunque all’interno di ambiti circoscritti, come i vari sequel – con le opportune variazioni del caso e sottolineando di volta in volta l’azione, la disperazione e la fantasia – hanno dimostrato senza ombra di dubbio. Per tale motivo sia Prometheus che Alien: Covenant possono sembrare, agli occhi dei cultori della saga, quasi un atto di presunzione. Il ragionamento tipico di un regista arrivato, per motivi anagrafici, alla parabola discendente della carriera: prima vi ho scosso i sensi, ora faccio altrettanto ma invitandovi alla riflessione più o meno profonda. Da questa sorta di conflitto “interiore”, probabilmente irrisolvibile da parte di un artiigiano di lusso come Scott si sarebbe poi dimostrato nel corso della carriera, nascono opere palesemente imperfette come Prometheus e Alien: Covenant; e davvero, soprattutto in questo secondo caso, la narrazione dura e pura si limita a ripercorrere piuttosto stancamente i passi dei film della prima serie, trapiantando a mo’ di Frankenstein segmenti presi qui e là.
Dopo un prologo che fa da trait d’union con Prometheus, Alien: Covenant ricicla il consunto spunto della chiamata imprevista che dirotta una spedizione spaziale verso il pianeta che fu teatro dell’azione in Prometheus. Da lì in poi un’evoluzione narrativa prevedibile che introduce nuove forme di inseminazione aliena, sdoppia l’automa di bordo interpretato da Michael Fassbender in un duplice ruolo all’insegna, come ovvio, della massima ambiguità – e sono comunque i momenti migliori del film – mentre stronca sul nascere qualsiasi forma di empatia nei confronti di un equipaggio umano assai poco caratterizzato, capeggiato da una volenterosa Katherine Waterston a replicare i panni dell’indomita guerriera indossati dall’inimitabile Ripley originaria. I neofiti della saga potranno anche accontentarsi di una cornice formale al solito al di sopra di ogni sospetto, maestranza tecniche comprese; coloro che ricordano a memoria ogni sequenza dei quattro gloriosi lungometraggi del primo ciclo, finiranno con il rimpiangerli – anche i meno efficaci tra loro – senza soverchi sensi di colpa. Ad ulteriore conferma che il cinema, almeno quello che per comodità definiamo di genere, deve per forza di cose partire dalla qualità dell’intrattenimento, pensando poi ad accumulare attorno ad esso tutte le istanze “serie” che si ritengono opportune. Mettere in moto un progetto con l’idea di realizzare una fantascienza filosofica e speculativa nonché al contempo conquistare parti consistenti di pubblico, se non ci si chiama(va) Stanley Kubrick, difficilmente porta a qualcosa di buono. A maggior ragione per tali motivi Alien: Covenant è un film su cui meditare, con tutta la perplessità necessaria, a fondo.
Daniele De Angelis