Home In sala Archivio in sala Adagio

Adagio

246
0
VOTO: 6,5

Brucia la città

Dopo aver fatto parte della folta pattuglia di pellicole battenti bandiera tricolore (sei per la cronaca) a caccia del Leone d’Oro all’edizione numero ottanta della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia e girato il mondo per partecipare ad altre prestigiose kermesse come quelle di Busan o Mumbai, per Adagio di Stefano Sollima è giunto il momento della prova del nove, ossia dell’uscita nelle sale nostrane con Vision Distribution prevista per il giorno 14 dicembre 2023.
Le aspettative nei confronti del nuovo film del regista capitolino non potevano non essere altissime, vuoi per gli elevati standard tecnici raggiunti dai suoi prodotti per il piccolo e grande schermo, vuoi perché Adagio ha segnato per lui non uno ma ben due ritorni: quello in Italia dopo le fortunate esperienze oltreoceano con Soldado prima e Senza rimorso poi, e quello nella sua città per chiudere una personale trilogia sulla e della “Roma criminale” iniziata con Romanzo criminale – La serie e proseguita con Suburra. Una Roma che Sollima aveva lasciato otto anni fa mentre nell’epilogo dell’opera del 2015 veniva sommersa da una pioggia battente e inghiottita dalle acque traboccanti dai tombini che avrebbero dovuto purificarla e ripulirla dai peccati compiuti dalla sua gente. Cosa che a quanto pare non è avvenuta visto che in Adagio la ritroviamo circondata e minacciata dalle fiamme, come se non potesse più esistere alcuna via d’uscita, mentre brucia e con la mente che torna a Nerone e al grande incendio del 64 d.C.
Sin dalla primissima inquadratura aerea vediamo le fiamme in lontananza divampare e avvicinarsi sempre più ai centri abitati, con il caldo asfissiante (come in Siccità di Paolo Virzì) che toglie il respiro e provoca continui blackout facendo piombare la metropoli nell’oscurità. Una metropoli che il regista con la complicità del sodale direttore della fotografia Paolo Carnera torna a rappresentare come un cadavere in stato di decomposizione e una cloaca infetta, penetrando nel suo ventre malato per restituirne ancora una volta il lato oscuro, l’anima corrotta e il cuore nero come la pece. Ed è con questi colori sulla tavolozza, simili a quelli utilizzati da Michael Mann e Johnnie To per imprimere sui fotogrammi le immagini di Los Angeles il primo e Hong Kong il secondo, che la macchina da presa guidata da Sollima dipinge il ritratto di un macrocosmo sulla soglia del collasso segnato da elementi distopici e post-apocalittici che hanno una funzione narrativa (gli incendi e i blackout) ma che conservano comunque un livello altissimo di realismo. Il ché contribuisce a conferire a Roma una veste cinematograficamente inedita, quella delle strade e della viabilità non tanto attraverso i suoi monumenti o i quartieri storici, quelli che la identificano maggiormente, quanto piuttosto come una città dove la gente è in continuo movimento. Lezione appresa probabilmente durante il periodo a stelle e strisce, che ne ha mutato e arricchito ulteriormente lo sguardo, oltre allo stile e alla grammatica action che al momento ci sentiamo di dire avere pochi eguali nel panorama audiovisivo italiano, basta vedere l’epilogo ambientato alla stazione Tiburtina a confermarlo. E per farlo l’ha osservata, catturata e restituita con occhi diversi, percorrendo le topografie con un altro passo rispetto al passato. Insomma, non con la dinamica iper-cinetica delle volte passate, bensì con un adagio puntellato da lampi di azione e un graduale crescendo della tensione che implode sullo schermo nel già citato finale sulla spinta della potentissima colonna sonora firmata dei Subsonica.
Sono questi i punti di forza e i valori aggiunti di un’opera dalla confezione impeccabile, ma che al contrario perde quota a causa di una scrittura e di un racconto che continuano a battere sempre dove la lingua duole, concentrandosi solo e soltanto su concetti e tematiche da Sollima e da chi lo ha affiancato in fase di sceneggiature già ampiamente affrontati e sviscerati. Chi come noi il cinema del regista capitolino lo ha amato sin dai primi vagiti inizierà a soffrire una certa ripetitività e assuefazione, con Adagio che da questo punto di vista non propone nulla di nuovo in termini narrativi e drammaturgici. In un noir metropolitano che si tinge del rosso del sangue e delle fiamme che ardono per le strade prende vita uno scontro generazionale a tutto campo nella bassa malavita tra vecchi gangster malmessi (ex Banda della Magliana) e forze dell’ordine corrotte. Dunque ancora una volta non c’è spazio per il bene che qui non viene mai rappresentato (come in Gomorra – La serie) perché a fronteggiarsi è solo il male nelle sue diverse espressioni: da una parte un gruppo di carabinieri passati dall’altra parte della barricata che operano al di sopra della legge abusando del proprio potere (in questo c’è l’ombra di ACAB – All Cops Are Bastards), dall’altra tre vecchie leggende sul viale del tramonto della Roma criminale alla ricerca di una redenzione impossibile in un mondo ancora più cinico, caotico e feroce di quello che avevano governato negli anni d’oro. Un mondo che schiaccia relazioni familiari, amichevoli e fraterne senza lasciare altri legami tra gli uomini al di fuori del denaro. Nel mezzo le nuove generazioni come quella alla quale appartiene Manuel, un sedicenne che suo malgrado si trova invischiato in questioni ben oltre la sua portata, tanto da trasformarlo nella preda scomoda di una vera e propria caccia all’uomo.
Quello che va in scena nel sottobosco romano più stagnante è l’ennesimo capitolo del romanzo criminale che l’autore sta scrivendo già da diversi anni, al termine del quale speriamo si decida ad apporre la parola fine con questo film, perché urge a nostro avviso un cambiamento che ci consegni storie diverse e metta ancora una volta in risalto le grandissime capacità di uno dei pezzi da novanta della nostra industria. La nostra non vuole essere una bocciatura, poiché Adagio è portatore sano di tante cose buone da prendere e conservare nel cassetto, a cominciare dal lavoro sia dietro che davanti la macchina da presa (pregevoli tutte le interpretazioni, dalla prima all’ultima per non fare torto a nessuno), ma ci piacerebbe con tutto il cuore e la stima che nutriamo nei confronti di Sollima che senza snaturarsi inizi a battere anche altre strade per evitare che il suo cinema diventi ripetitivo e prevedibile.

Francesco Del Grosso

Articolo precedentePrimo – Sempre Grezzo
Articolo successivoMolo Film Festival 2023: Fulvio Risuleo al Caffè Letterario

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

15 − otto =