Tutto viene a galla
Un politico corrotto e invischiato fino al collo con la malavita, un giovane boss schizzato che controlla il litorale romano con al seguito la sua instabile fidanzata tossicodipendente, l’ultimo componente della Banda della Magliana, un PR viscido e senza scrupoli, un’avvenente Escort, il capoclan di una pericolosa famiglia di zingari e persino un Cardinale: sono loro gli ingranaggi di una bomba a orologeria destinata a implodere sotto le viscere di una città che assume le sembianze di una cloaca marcia e malata, malata come il ventre infetto che l’ha partorita. Quella città è Roma, bolgia totale che nella vibrante opera seconda di Stefano Sollima dal titolo Suburra si colloca a metà strada tra il girone infernale dantesco e la raffigurazione biblica di uno scenario che precede l’Apocalisse, notturno e battuto da una pioggia che cade incessantemente e senza sosta per sette interminabili giorni. Una pioggia, questa, che invece di lavare via i peccati li fa venire a galla, tracimando dai tombini ormai in ebollizione sino a materializzare un’immensa pozza d’acqua stagnate nella quale specchiarsi e guardare cosa siamo diventati.
Nella Città Eterna, dipinta dal regista capitolino con il nero pece della notte e il rosso del sangue come quella senza nome di Seven, si scatena e si consuma una guerra senza quartiere per un imponente progetto di speculazione edilizia che coinvolge il potere politico, religioso e della strada, che porterà all’inevitabile corto circuito, ma soprattutto al crollo del Governo e con esso della Suburra, quel quartiere che nell’antica Roma ospitava gli incontri segreti fra i rappresentanti della legge, dello Stato e della criminalità. Dopo oltre duemila anni, quel luogo esiste ancora, perché oggi, forse più di allora, Roma è diventata la città del Potere. Se Sorrentino ne La grande bellezza ne ha decantato il fascino e le meraviglie, Sollima ne mostra le brutture, i vizi, le ipocrisie e le schifezze, quelle perpetrate tanto nei vicoli malfamati quanto nelle stanze dei bottoni dei Palazzi, comprese quelle affrescate e sacre del Vaticano. Qui, tra le aule di Montecitorio e le strade, tra i festini orgiastici e i locali di quarta categoria, si fronteggiano nell’oscurità le diverse facce del Male. In Suburra, il Bene e si suoi esponenti non trovano spazio, la loro presenza non è contemplata, così come non lo era in Gomorra – La serie, anch’essa diretta da Sollima. Qui nessuno è innocente, tutti hanno scheletri nascosti nell’armadio, le mani sporche e il più pulito ha la rogna. Del resto, nemmeno i celerini di ACAB – All Cops Are Bastards erano completamente trasparenti e cristallini. Finalmente ci si trova al cospetto di un film dove espiazione e redenzione non esistono, dove conta solo se riesci a rimanere in piedi. I protagonisti si trasformano nelle pedine di un autentico gioco al massacro che va in scena nell’arco di una settimana, quella che deciderà il destino di molti di loro. Destini che si intrecciano entrando in rotta di collisione. E se Dio ci ha messo sette giorni per creare il mondo, a Sollima & Co. ne sono occorsi altrettanti per radere al suolo la Città Eterna. Il risultato è un countdown che scorre sino a un epilogo che non accetta il pareggio.
La cronaca violenta di questo nuovo “Romanzo Criminale” dai contorni mai sfumati e politicamente corretti trova spazio in un film che è un vero e proprio fiume in piena. Cruda e diretta, senza peli sulla lingua, l’opera e ciò che racconta vuole essere un ritratto allegorico della Società in cui viviamo. Le cinquecento e passa pagine del libro omonimo del due Bonini-De Cataldo sono la base di partenza dalla quale Rulli e Petraglia hanno tratto lo script. Coincidenza vuole che quest’ultimi si siano trovati a passare da “la meglio gioventù” di Giordana a “la peggio gioventù” di Sollima. Essere riusciti a condensare in poco più di due ore una mole di materiale come quella messa a disposizione dalla matrice originale è l’altro grande merito dell’operazione. Il fatto che si avvertano una repentina accelerata in prossimità dell’epilogo e una certa saturazione drammaturgica sono la fisiologica conseguenza. Siamo sicuri che quando si passerà sul piccolo schermo con la serie annunciata per Netflix, l’enorme potenziale del libro, in termini di storia e di personaggi, avrà la sua più corretta espressione. Per il momento il Suburra cinematografico offre alla platea di turno un mix di crime movie e noir metropolitano di grande efficacia, che usa il cinema genere per parlare dell’Italia e degli italiani, con un linguaggio universale che può tranquillamente oltrepassare i confini nazionali, tirando fuori la nostra produzione dal guado di una dimensione ombelicale nella quale ci siamo andati a infilare. Per cui, anche se i costi per realizzarlo sono esorbitanti, ben vengano se i risultati sono di qualità.
Drammaturgicamente il film sa come coinvolgere lo spettatore dal primo all’ultimo fotogramma utile, palleggiando con scioltezza tra una situazione e l’altra. Ciò è reso possibile grazie a una chirurgica, avvincente e incalzante, concatenazione degli eventi, in particolare quando si passa dalle parole ai fatti, come nelle scene della sparatoria nel centro commerciale e dell’irruzione armata in quello estetico, dove il rumore dei proiettili fa da colonna sonora alle mattanze. In tal senso, gli sceneggiatori sono stati bravi a piazzare lungo la timeline una serie di puntuali e improvvisi cambi di ritmo per alzare la tensione tutte le volte che si corre il rischio di incorrere in pericolose flessioni. Salvo sporadici passaggi a vuoto e digressioni, ma anche qualche insistenza di troppo sulle dinamiche tra i personaggi (soprattutto tra Viola e Numero 8), la narrazione fluisce senza intoppi attraverso una struttura a imbuto che accoglie il tutto per poi riversalo nei dieci minuti finali. I personaggi che lo animano sono ben delineati, alcuni tagliati con l’accetta e altri disegnati più in profondità, valorizzati da un cast che nel complesso offre una prova corale di livello superiore alla media nazionale (tre su tutti: Amendola, Favino e Borghi).
Per quanto riguarda la confezione visiva, la messa in scena e la messa in quadro godono entrambe della sapiente regia di Sollima (buon sangue non mente), bravo a districarsi tanto nelle scene dinamiche quanto in quelle più statiche. Alternati, lo stile sporco e quello più raffinato, con i quali il regista romano dà forma e sostanza alla materia cartacea, permettono all’opera di piazzarsi sui gradini più alti della produzione di genere made in Italy degli ultimi decenni. E questo è merito anche della fotografia di Paolo Carnera.
Francesco Del Grosso