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Ad Astra

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VOTO: 8

Ridisegnare lo spazio

C’è sempre un “fantasma”, nel cinema di James Gray. Che si presenta sotto forma di ossessione da combattere oppure sopportare, convivendoci a fatica. La cornice fantascientifica, peraltro ottimamente descritta, diventa ancora una volta il semplice spunto per organizzare un discorso assai più complesso del semplice cinema di intrattenimento. Un cinema ludico che peraltro Gray non ripudia affatto, anzi; divertendosi ad inserire parentesi western (l’assalto lunare, degno di un western fordiano) e persino horror (la classica richiesta di sos nello spazio profondo che nasconde una trappola mortale) nella sua ultima fatica, il tanto atteso Ad Astra presentato in Concorso alla 76° edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Un James Gray uno e trino, allora. Capace di sdoppiarsi tra purissima autorialità e gioco cinefilo fino a far convergere le due istanze in un epilogo dove sarà la componente emozionale a tracimare. Quella, riferendoci ancora all’ossessione di cui sopra, che affligge il maggiore Roy McBride, astronauta di un futuro distopico e remoto nel quale i viaggi interplanetari saranno consuetudine mentre la società è tenuta in scacco da una burocrazia tanto sottile quanto invadente, la quale considera il singolo essere umano al pari di una pedina priva di qualsivoglia forma di rispetto ed eventualmente sacrificabile. In Ad Astra l’ossessione in questione porta il nome di Clifford McBride, glorioso e decorato comandante spaziale creduto per decenni scomparso durante una missione in orbita a Nettuno. Spedizione che si ritiene responsabile di una violenta reazione a catena in ogni angolo dell’universo, mettendo di conseguenza in pericolo la sopravvivenza della razza umana sul pianeta Terra. Nelle alte sfere si ritiene che McBride senior sia ancora vivo; perciò viene incaricato il figlio per la missione di contattarlo alla distanza minima (si fa per dire…) da Marte allo scopo di inoltrargli un messaggio. Ma le cose, ovviamente, non andranno come previsto dal comando.
Dopo la contrapposizione famigliare tra etica e crimine de I padroni della notte (2007), le irrisolvibili sofferenze sentimentali di Two Lovers (2008), le esistenze allo sbando in terra straniera di C’era una volta a New York (2013) e l’insopprimibile desiderio di esplorazione come segno di progresso di Civiltà perduta (2016), ecco che si aggiunge in Ad Astra un gigantesco Complesso di Edipo da superare nella galleria di personaggi alla disperata ricerca di una realizzazione tra quelli disegnati sul grande schermo da Gray. Dell’ufficiale Roy McBride (ottimamente interpretato da un Brad Pitt coinvolto nella parte ben al di là del ruolo produttivo ricoperto nel film) scrutiamo da spettatori la parte più intima, una “messa a nudo” necessaria affinché l’essere umano imbocchi la strada del cambiamento. L’unico rischio che corre l’umanesimo fantascientifico di Gray è quello di essere scambiato per un cinema derivativo, una sorta di Malick riveduto e corretto a causa del flusso di coscienza – pur con qualche momento di eccessiva esemplarità – che scorre ininterrottamente per tutta la durata di Ad Astra da parte del suo protagonista. Ed invece ciò che in Terrence Malick ambisce all’universalità di pensiero, in Gray resta strettamente personale e soggettivo, tanto che alla fine della visione Roy McBride appare come il superstite non di una lunga missione spaziale ma di un’esplorazione all’interno di se stesso che lo ha portato finalmente a vivere ed accettare i propri limiti umani. Il duplice binario su cui viaggia il cinema di James Gray si ripresenta allora tale e quale, mutando semplicemente pelle come tipico dei grandi registi: da un lato la narrazione più o meno tradizionale di un’opera inserita in un contesto narrativo classificabile in un genere definito; dall’altro uno sperimentalismo personale ed emotivo che conduce l’autore stesso, assieme ad una platea predisposta a farsi ammaliare da un cinema desueto, alla straordinaria scoperta della parte più recondita del personaggio o dei personaggi messi in scena.
Ancora una volta, dunque, James Gray modifica da par suo i confini dello spazio cinematografico nel quale agisce. Lanciando al singolo fruitore la metaforica sfida di raccogliere il simbolico seme e farlo crescere dentro di sé dopo la visione. Se non è grande, generoso, cinema d’autore questo…

Daniele De Angelis

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