Rivenuti al mondo
Sulla scia dell’ottima accoglienza ricevuta alla premiere in quel del Sundance, dove si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria, arriva finalmente sugli schermi nostrani Wolfpack. Il documentario firmato da Crystal Moselle, nelle sale con Wanted a partire dal 22 ottobre dopo essere transitato nel programma della decima edizione della Festa di Roma nella sezione Alice nella Città, è di quelli che non si dimenticano tanto facilmente, sia per il ventaglio di emozioni che è capace di aprire nella mente e nel cuore dello spettatore, sia per la potenza intrinseca della vicenda che racconta. Impresa ardua, infatti, è riuscire a liberarsi da quel magma incandescente di sensazioni che la visione del film della regista statunitense va via via sedimentando nel fruitore, a cominciare dall’inquietudine sino ad arrivare all’angoscia vera e propria. Rimanere impassibili e passivi davanti a ciò che l’opera porta sul grande schermo è, per quanto ci riguarda, un lusso che non è concesso prendersi.
La storia narrata è quella dei sei fratelli Angulo, passati alle cronache per aver trascorso tutta la propria vita rinchiusi in un appartamento del Lower East Side di Manhattan, lontani dalla società civile. Soprannominati “i Wolfpack”, sono straordinariamente brillanti, si sono formati studiando a casa, senza nessun conoscente al di fuori della famiglia e non sono praticamente mai usciti dal loro appartamento. Tutto ciò che conoscono del mondo esterno proviene dai film che guardano in maniera ossessiva e che rimettono in scena meticolosamente, utilizzando elaborate attrezzature sceniche e costumi fatti in casa. Per anni questo passatempo è stato per loro uno sfogo creativo e un modo per prevenire la solitudine, ma dopo la fuga di uno di loro, le dinamiche familiari sono cambiate, e tutti i ragazzi hanno cominciato a sognare di avventurarsi all’esterno.
Wolfpack è il resoconto drammatico e coinvolgente di questa lenta ma necessaria evasione che ha trascinato i sei fratelli fuori dalle mura domestiche, per anni “prigione” nella quale scontare un reato mai commesso. Ma questo non è uno dei tanti casi di malagiustizia frutto di un errore giudiziario, piuttosto la scelta di un padre padrone che ha costretto moglie e figli a vivere segregati in un’assurda condizione di esilio da una Società a suo parere malata, corrotta e pericolosa. Siamo per tanto al cospetto di un atto d’amore estremo, che da tentativo di protezione si trasforma in un’arma impropria destinata a creare danni e ferite ancora più gravi e irreversibili (cinematograficamente parlando la mente torna a Hungry Hearts, dove una madre “barrica” il figlio in una sorta di campana di vetro per proteggerlo dalle impurità del mondo). Cicatrici psicologiche, queste, con le quali continuare a fare i conti per il resto della vita. Gli Angulo fanno parte di quella “galleria degli orrori” che negli anni ha visto aggiungere alla collezione ritratti scioccanti, sbattuti sulle prime pagine dei giornali in nome della spettacolarizzazione del dolore, ma anche come testimonianze dirette della follia umana che con i casi delle tre ragazze di Cleveland e dell’austriaca Natascha Kampusch (senza dimenticare quelli di Jaycee Dugard, Elizabeth Smart o Elizabeth Fritzl) ha toccato vette impensabili in termini di crudeltà. La sostanziale differenza rispetto ai casi citati è che i protagonisti di Wolfpack hanno trovato la libertà conquistandosela gradualmente da soli, facendo i conti con le paure e i diktat di un padre aggressivo e manipolatore, lontano però da quel mostro che risponde al nome di Ariel Castro. E l’evasione da quella segregazione passa prima per l’Arte, in particolare dalla musica e dal cinema, poi per la decisione di tuffarsi, ciascuno a proprio modo, nella vita reale, venendo al mondo per la seconda volta. Forse per questo i loro passi e i loro sguardi fuori da casa sembrano i primi compiuti da un bambino.
Il grande merito che va riconosciuto alla Moselle, per la quale ci sentiamo di pronosticare un posto nella cinquina di categoria alla prossima notte degli Oscar, è quello di essere penetrata in casa Angulo e di averlo fatto in punta di piedi. L’occhio della videocamera si fa invisibile e indiscreto, si limita a documentare ciò che accade palesandosi solo quando giunge il momento di raccogliere stralci di interviste, alcuni dei quali davvero toccanti (i racconti dell’irruzione in casa della SWAT o la fuga di uno dei fratelli). Per farlo ha scelto di mostrare il processo di acquisizione dell’autonomia da parte dei sei fratelli, senza mai giudicare o puntare il dito verso niente e nessuno, nemmeno contro colui che di fatto meriterebbe il ruolo del carnefice. La regista americana lascia che siano i ragazzi a raccontare la loro storia in un flusso di parole, ricordi e immagini (attuali e di repertorio), offrendo alla controparte la possibilità di una replica che non ha però il sapore di una redenzione. La delicatezza e il rispetto, insieme all’oggettività, sono merce rara e Wolfpack ne ha da vendere.
Francesco Del Grosso